Festività natalizie. Quando la festa non è festa.

§§§

 

Dottoressa, non va bene. Si avvicina Natale, in giro ci sono tante luci, tante persone che corrono di qua e di là, felici, tanti pacchetti, e regali e gran sorrisi, tutti belli, eleganti, con un gran da fare, …..e anche io ne avrei di cose da fare…tra un poco arrivano un po di parenti lontani, qualche dono lo dovrei preparare anche io,  ma……non me la sento. E poi, a parte che rimando sempre e il tempo mi sta sfuggendo tra le dita, è che non ne ho proprio voglia.

 

Dalle sue parole mi sembra di capire che non trova dentro di sé la voglia, il desiderio di essere presente e attiva in questo spirito natalizio che La circonda. E’ così?

 

Si.

 

Può spiegarmi meglio?

 

E’ che mi sembra che ciò che mi circonda sia falso, irreale, a momenti. In altri momenti penso che sono io quella sbagliata, quella triste in un mondo pieno di felicità. Ma, Dottoressa, di cosa dovrei essere felice? Lei conosce i miei guai, non riesco a venirne a capo. O almeno, in alcuni periodi va meglio, come in questi ultimi mesi, ma poi arrivano queste feste dove DEVI essere felice, tutti quelli con cui parli ti dicono di farti coraggio e di sorridere, ma come faccio, se dentro sto morendo? 

 

 

Quando una persona si trova in uno stato di sofferenza o fragilità, anche a fronte di condizioni cliniche conclamate, vive quotidianamente nel disagio, senza interruzione per feste e vacanze.

Nello specifico, Natale è per tutti la Festa, sia per i credenti che per gli non crede, in quanto occasione per stare in compagnia di persone care.

Eppure non per tutti è così, per differenti ragioni. Comune a queste persone è il vissuto di estraneità, di tristezza, di vuoto e disperazione che può derivare dal  confronto tra ciò che si sta vivendo e “la normale gioia che circonda il Natale”. E’ questo gap, questa differenza percepita soggettivamente, ritenuta abissale, che attiva o riattiva pensieri negativi automatici, che a loro volta mettono in moto circoli viziosi che sono alla base di un’escalation di sofferenza.

Riconoscere le proprie vulnerabilità e cercare un sostegno professionale è un buon punto di partenza per intervenire positivamente sulla propria salute mentale.

Lavorare su di sé, in termini di pensieri ed emozioni, sulle proprie credenze, sulle personali idiosincrasie è un dono che facciamo a noi stessi, all’insegna della autopromozione di una buona qualità di vita.

Violenza verbale e violenza psicologica

La violenza verbale consiste in una serie di attacchi alla persona basati prevalentemente sul linguaggio, mirati a umiliare, denigrare, offendere l’interlocutore, in maniera diretta (insulti, urla, parole scurrili) o indiretta (svalutazione del valore personale, in toto o in relazione ad alcuni ruoli, insoddisfazione delle azioni o della condotta, biasimo).

La violenza psicologica è composta da una serie di atti comunicativi, di natura verbale e/o comportamentale, che mira sistematicamente a sgretolare il senso di sé di una persona, attraverso il dubbio, il rifiuto, la non accettazione dell’Altro, la critica spietata, l’intimidazione volta a non parlare o denigrando ogni pensiero, desiderio, volontà perché etichettati come “non appropriati”, “infantili”, “dannaggiosi”, “senza alcun valore”.

Se il linguaggio dell’uomo violento si regge su frasi esplicite (stai zitta, non capisci niente, quando parlo io tu non devi fiatare, non contraddirmi, come ti permetti di rispondermi) ed implicite (era proprio necessario?, dici solo stupidaggini, mai sentite tante fesserie, faresti meglio a misurarti le parole prima di aprire bocca), il comportamento si palesa in azioni volte a dimostrare la propria superiorità: non rispettare i turni verbali, prevaricando la libera espressione, fare occhiate di disapprovazione, sminuire pubblicamente il pensiero della donna, urlare contro di lei, dimostrare il proprio disprezzo attraverso sguardi torvi, minacciosi, volti ad intimidire e a voler comunicare la piccolezza in termini di valori, di capacità, di intelligenza della donna.

Quanto detto non si esaurisce in un confronto o in una discussione, in quanto in UN momento di ira può succedere di esagerare e poter sconfinare nel cattivo gusto, da ambo le parti.

La violenza fisica e psicologica vanno invece ascritte ad uno stile comunicativo persistente ed abitudinario, volto a demolire la donna che esprime i propri pensieri ed emozioni, motivazioni, desideri, scelte quotidiane e di vita, nei suoi ruoli di donna, di madre, di figlia, di lavoratrice, di amica, di essere umano, al fine di preservare la propria immagine di padrone, di potere assoluto, di detentore della giustizia e della verità.

Nella violenza verbale dell’uomo si ritrova il senso di vulnerabilità dello stesso: chi non sa sostenere una discussione vuole interromperla, a qualsiasi costo; chi si sente minacciato nelle sue certezze da una visione della vita differente diventa aggressivo, al fine di preservare la sua fragile identità; chi egoisticamente ricerca la propria felicità è bloccato ed infastidito da chi richiama la sua attenzione ad un progetto condiviso; chi ha costruito con fatica un equilibrio instabile si sente frustrato nel dover rivedere le proprie scelte ed aprirsi ad una visione dell’Altro come valore aggiunto piuttosto che come minaccia.

L’Altro diventa minaccia, nemico, ostacolo da superare, il mezzo è la forza bruta, verbale e non.

Nella psicologia della violenza di genere, la donna è percepita come minacciosa, è nemico, è fastidio, va schiacciata.

La strategia predominante consiste nell’attaccare e nel ridimensionare il valore della donna: la prima attraverso espressioni dirette volte a mettere con le spalle al muro l’avversario, la seconda attraverso attacchi subdoli al proprio valore personale, in privato ma molto più spesso pubblicamente, dinanzi alla famiglia d’origine, ai figli, alle amicizie, a sconosciuti.

La donna aggredita, verbalmente e psicologicamente, sperimenta in maniera cronica diverse emozioni e sviluppa nuove credenze su di sé.

Innanzitutto lo stupore: chi non è in uno stato di conflitto e riceve risposte aggressive viene spiazzato, in quanto lo stato d’animo è sintonizzato su ben altre frequenze, ad esempio quelle della mera comunicazione, dello scambio d’idee.

Si presentano successivamente sbigottimento, incredulità “cosa succede, forse non sto capendo”; ci si mette in discussione “mi sarò espressa male, avrò sbagliato”.

Poi paura e vergogna, a cui possono seguire condizioni cliniche conclamate: disturbi ansiosi, disturbi depressivi, ma anche disordini alimentari, traumi e disturbi dissociativi, alterazioni del sonno.

Tutto diventa incerto, ci si sente sempre in pericolo, la percezione di sé è caratterizzata da dubbi, inefficienza, inefficacia, senso di vuoto. L’incertezza è una costante, diminuisce il proprio valore personale, aumenta il ritiro sociale, si entra in circoli viziosi che è difficile riconoscere e interrompere.

Ci si sente inappropriata come donna, come madre, calano le performance, la voglia di mettersi in gioco, la tranquillità, l’equilibrio; ci si sente debole nel non saper rispondere, schiacciato dal peso della critica e del disprezzo; ci si sente finita, obbligata ad accettare lo stato delle cose, senza speranza.

La difficoltà maggiore di queste situazioni, da non dimenticare, deriva dal legame che esiste tra violento e vittima: chi opera questo tipo di violenza non è il passante o il vicino di casa, al quale si può reagire, ma è il compagno di vita, padre dei propri figli, è chi mangia a tavola con te, chi dorme accanto a te, è la persona con cui esci ed incontri amici, è la persona che dice di amarti, che lo fa perché ti vuole bene, per migliorarti, è chi nega di averlo fatto ed è solo pura invenzione, è chi dici che è un tuo problema perché non sai accettare le critiche.

Questo tipo di violenze, verbale e psicologiche, sono subdole, sono nascoste, lasciano ferite che non si vedono, e che comunque sanguinano, influenzano molto la modificata visione che la donna ha di sé, la sua autoimmagine, non sono facilmente comunicabili, e spesso non sono credute: non sempre l’uomo violento verbalmente e psicologicamente è anche violento fisicamente, il più delle volte sono uomini che non alzano le mani, ma esprimono tutta la loro vulnerabilità, le loro fragilità, la loro inconsistenza attraverso la mera demolizione dell’identità altrui, al fine di fare emergere la loro “piccola”persona. Senza questo meccanismo di negazione dell’Altro, loro sarebbero identità vacue, deboli, inconsistenti, avrebbero una vita psicologica molto ristretta e fragile.

Se non si fossero trasformati in carnefici, si avrebbe una visione di loro come di persone che hanno bisogno di aiuto, che necessitano di un profondo lavoro psicoterapico al fine di cogliere i significati profondi delle loro debolezze e fragilità. Invece, la maggior parte delle volte si lavora con le vittime, al fine di fornire gli strumenti utili per riconoscere lo stato di vessazioni nel quale vivono, accendere una luce di speranza verso la non ineluttabilità della situazione, per renderle nuovamente attive e padrone della loro vita.

 

 

 

 

Violenza fisica

Quanti i fatti  di cronaca che narrano storie di sofferenza, di prevaricazione, di brutalità di un essere umano su un altro suo simile, e quanti di questi fatti sono riferiti a storie che accadono all’interno della famiglia, con la stragrande maggioranza di brutalità e violenza operate dalla mano di un uomo sulla propria moglie, compagna, fidanzata, ma anche sui figli, generalmente in tenera età, ma non solo.

L’ISTAT riferisce nell’anno 2018 che la percentuale di donne vittime di violenza nel corso della loro vita  costituisce il 31,5% della popolazione femminile nel range d’età 16-70, dunque 6 milioni 788 mila, un’enormità.

Il 20% circa ha subito violenza fisica, con oltre la metà (12,6%) ad opera del partner o di un ex partner: spintoni, schiaffi, calci, pugni operati sul corpo, secondo una propria e vera aggressione, ma non solo: è operata anche attraverso la messa in atto di comportamenti offensivi su qualcosa o qualcuno a cui la persona tiene, come  figli, animali, oggetti personali. Dunque la violenza fisica comprende qualsiasi contatto fisico che mira a intimorire e controllare un’altra persona, partendo da un impedimento e una spinta fino a giungere all’aggressione fisica grave, che richiede interventi d’emergenza a carattere medico.

Dietro le statistiche che presentano il fenomeno ci sono le persone: uomini violenti che fanno valere la forza bruta, l’intimidazione, la prevaricazione, la strumentalizzazione delle relazioni, degli affetti, dei sentimenti, al fine di costruire a propria misura il mondo che li circonda, la famiglia che vogliono, non quella che vorrebbero.

Tutte le persone hanno desideri, fantasie, speranze, scopi da perseguire e raggiungere, e lungo lo scorrere della vita si operano scelte, si lavora duramente per ottenere ciò che si anela, ma con la consapevolezza che tra ciò che è e ciò che vorremmo esiste una differenza sostanziale, accettando la realtà che ci circonda e ridimensionando la visione egoistica ed egocentrica del mondo.

Gli uomini violenti no, non riescono ad operare questa distinzione, e pur di far coincidere la realtà con ciò che vogliono e che reputano giusto, sono disposti a pagare prezzi altissimi: ergersi a padrone della vita altrui, perdere la compagna di vita a favore di qualcuno da comandare, manipolare, disumanizzare. Perché la donna diventa questo: un “oggetto” senza desideri, speranze, opinioni, personalità pur di non subire violenza, ancora e ancora.

La perdita che accettano questi uomini è altissima in termini umani, ma invisibile ai loro occhi, forse frutto di apprendimenti culturali talmente radicati, maschilisti, di potere agito che rende forti, autorevoli, soddisfatti, su un piano superiore rispetto a chi deve solo obbedire, pena la punizione corporale, agita per insegnare i ruoli, i valori, la giustizia, per ridimensionare coloro che osano avere una personalità, o semplicemente per sfogare i propri mostri personali o le frustrazioni che la vita riserva loro.

Ciò che resta sono i corpi feriti, gli animi soffocati, il terrore che tutto possa succedere nuovamente, per una sciocchezza, la paura della porta di casa che si apre, l’appiattimento di sé al fine di essere compiacenti, i sensi di colpa, la vergogna, le bugie per non tradire la fiducia di chi dice di amare ma di fatto tratta la donna come un oggetto non amabile, indegno di rispetto, di fiducia, di parità, di umanità.

Quante le storie di donne che per anni hanno subito tutto questo, e non perché lo volevano.

Quando l’offesa viene dall’esterno, per una disposizione evolutiva l’essere vivente cerca riparo verso una figura di riferimento, verso qualcuno che si ama e da cui si è amati. Quando il compagno, il fidanzato oltrepassa il limite, per la donna si apre l’inferno: il non riuscire a parare i colpi, il non riuscire a difendersi, sia per una differenza di forza, ma anche per meccanismi evolutivi che si mettono in moto, come il freezing, (ossia un meccanismo di cui ci ha dotato la natura, che condividiamo con gli animali e che consiste nell’immobilità scaturita da una valutazione immediata della minaccia in termini di dimensioni, gravità e impossibilità a sottrarsi alla stessa),  l’incredulità e il dolore scaturito dall’evidenza che chi colpisce è una persona che afferma di amare, la paura e timore per la propria incolumità, ma anche per gli altri, come i figli o genitori anziani presenti in casa in quel momento, o coloro che potrebbero capire, vedendo i segni sul corpo offeso e reagire, denunciando l’aggressore.

Tutto insieme, tutto nella mente di una persona in pericolo, terribile.

E dopo la violenza, il tentativo da parte dell’uomo di dare un senso a ciò che è avvenuto, ovviamente che lo giustifica: “se tu non avessi detto, fatto,…io non avrei dovuto..”, che tutto ciò è successo per COLPA della donna, perché lei ha voluto ISTIGARLO, che lui non avrebbe mai voluto farlo, lui ha dovuto ma ora non lo farà più; si apre così un periodo di gentilezza, gesti amorevoli che convincono la donna che l’evento in sè non si ripeterà, che lui la ama, non le farà più male (fase della luna di miele), ma poi tutto ricomincia. In alcune storie questa fase non esiste: l’intimidazione è aperta, la disparità dei ruoli è sempre operante, il controllo e il comando prestabiliti, la punizione corporale una realtà conclamata.

E le donne non scappano: per paura, per sé stesse, per i figli, perché non avrebbero altro posto dove andare, per non sciogliere la famiglia, per non far parlare di sé nel paese, per vergogna, per i sensi di colpa, per un amore non equilibrato ma che è l’unica cosa che sentono di avere, per mille ragioni.

Alcuni li definiscono amori malati, altri li chiamano violenza e prevaricazione. Nel mezzo resta un gran numero di donne che arrivano in Pronto Soccorso con evidenti segni di maltrattamenti fisici non compatibili con una caduta dalle scale o con un banale incidente domestico, e tante altre donne restano in casa e coprono le offese del corpo con occhiali da sole e maglie lunghe, le offese dell’animo con il silenzio.

Studi Aperti…perché? Il sostegno dei caregivers e non solo

Il Mese del benessere psicologico promosso dall’Ordine degli Psicologi della Regione Puglia, e al quale aderisce lo studio Psicoterapia Cognitiva Bracci, è un importante occasione per promuovere il benessere inteso in maniera complessa, sistemica, inclusiva.

Molto spesso le persone che richiedono un consulto psicologico sono coloro che vivono uno stato conclamato di disagio psicologico e accettano l’idea che un aiuto non sia un segnale di debolezza, bensì il primo passo per risolvere la problematica in atto. Pertanto la richiesta di aiuto arriva da persone che pagano un prezzo molto alto sulla propria pelle per questioni inerenti ansia, depressione, stress cronico, pensieri intrusivi, violenza subìta.

In tal modo restano esclusi da questo circuito molte altre persone che comunque beneficerebbero di un sostegno psicologico, vuoi perché non avrebbero tempo per recarsi alle sedute, vuoi perché non potrebbero sostenere economicamente un simile percorso, vuoi perché ritengono di non necessitare di un aiuto professionale, essendo il proprio disagio scaturito da dinamiche esterne immutabili.

Ad esempio, quante persone ho incontrato in maniera informale che lamentavano un livello di stress molto alto dovuto all’assistenza di una persona cara con una grave patologia neurologica, come ad esempio l’Alzheimer. Spesso i caregivers (ovvero coloro che si prendono cura di una persona con patologie conclamate) sono soggette ad un carico di lavoro molto oneroso, che va ben oltre un livello sostenibile nel lungo tempo. Quando si ottiene una diagnosi del genere, non è la singola persona che viene investita dall’infausta notizia, ma tutto il sistema familiare, questo perché tali diagnosi comportano modifiche cerebrali tali da riguardare la sfera personale (in termini di abilità, percezione, memoria) ma anche modifiche emotive e relazionali. In molti casi il caregiver ritiene che una salda volontà sia sufficiente a sostenere un simile carico, e probabilmente nel breve periodo potrebbe rivelarsi utile una simile considerazione. Eppure nel lungo periodo tutto cambia: diviene difficile gestire il carico di lavoro quotidiano, mantenere un equilibrio emotivo, mantenere uno spazio di autonomia personale e di vita sociale: ciò scaturisce dalle caratteristiche stesse della sindrome di Alzheimer, che investe più ambiti, perdura nel tempo e comporta livelli di aggravamento progressivi. Molto gioverebbe a questi caregivers ritagliarsi uno spazio di ascolto e sostegno, dove potersi esprimere e confrontarsi con chi conosce tali situazioni, al fine di abbassare i livelli di emotività, ritrovare un livello di equilibrio accettabile, normalizzare il vissuto negativo legato a sentimenti di inefficacia, sensi di colpa, rabbia, etc.

Lo stesso ragionamento vale per coloro che vivono con malattie organiche, proprie o dei familiari, dove vi sono scarsa aderenza al trattamento e conseguenze sociali importanti: diabete, tumori, sla, autismo, malattie cardiache, obesità, e l’elenco potrebbe continuare.

Perché dinanzi alla malattia non basta solo la cura farmacologica, in quanto non è solo il corpo a soffrire, ma anche la sfera psicologica ne è investita.

E’ uso comune considerare corpo e psiche come due entità distinte, e anche nei tempi antichi è stata presente questa dicotomia e numerosi i dibattiti scientifici e filosofici tra i fautori delle due interpretazioni.

Corpo e mente sono collegate, non potrebbe essere altrimenti, e la cura dell’uno presuppone la cura dell’altro e non è mai tardi riconsiderare questa separazione, se la abbiamo operata, e porvi rimedio.

Non ultimi coloro che vivono una vita piena, tranquilla, “normale”, eppure si ritrovano a fare i conti con un infanzia che ha lasciato il segno: genitori assenti o troppo presenti, episodi importanti che non si riescono a collocare nel passato e si ripresentano in ogni scelta, credenze e valori scaturiti da stili familiari che sono stati subìti e ai quali si reagisce ancora oggi in maniera oppositiva, sentimenti di rabbia o tristezza che condizionano il presente perché non elaborati e accettati, credenze su come si è sbagliati, inadeguati, indegni. Spesso non solo i singoli soggetti a pagare il conto di questioni non irrisolte, ma anche chi condivide spazi di vita, come il/la coniuge, i figli, gli amici: spettatori di dinamiche che si ripresentano quotidianamente o a brevi intervalli, in base alla pervasività del passato e al grado di consapevolezza personale o di negazione.

Il Mese del benessere psicologico si pone proprio questo obiettivo: dare spazio alla nostra soggettività, alla sofferenza che ognuno di noi vive quotidianamente, alle vulnerabilità che ci appartengono per non considerarle più l’ospite scomodo da scacciare (anche perché non si riesce) ma ad accoglierle, dare voce e trovare uno spazio dove imparare a gestirle.

PERCHE’ NOI SIAMO ANCHE QUESTO E OGNI LATO DEL NOSTRO ESSERE E’ IMPORTANTE.

Fantasie e paure sulla figura dello psicologo

Negli ultimi anni, sulla scena della salute e del benessere si sta affermando sempre di più la figura dello psicologo, e questo grazie alla maggior diffusione di professionisti sul territorio, alle campagne di promozione (ad esempio la settimana del benessere psicologico in Ottobre) e sensibilizzazione su molti temi eterogenei (tavole rotonde multidisciplinari che vedono la copresenza di psicologi e altri specialisti della salute).

Aumentano le persone che richiedono un consulto allo psicologo, così come di pari passo cresce la domanda di benessere psicologico attraverso la partecipazione a corsi o gruppi tematici gestiti da psicologi.

Eppure, nonostante nelle conversazioni quotidiane si possa esprimere la necessità di recarsi dallo psicologo, non sempre ciò che si dice viene trasformato in una azione concreta.

Le motivazioni possono essere varie, e spesso non difformi dai buoni propositi sul migliorare il proprio stato di salute organico per poi farsi prendere dai mille impegni quotidiani.

Accanto a queste “dimenticanze” generali, esistono delle motivazioni che ruotano specificatamente attorno alla figura dello psicologo.

Partiamo dalla più diffusa e facilmente intuibile: il timore della vulnerabilità. E’ comune alla condizione umana attraversare periodi più o meno impegnativi, stressanti, in cui ci si può sentire inadeguati piuttosto che sbagliati, per breve o lungo tempo, a livelli che variano dalla lieve percezione alla avanzata severità. O è normale sentirsi tristi o depressi o rabbiosi. Può capitare anche di ritrovarsi in una spirale di disagio emotivo, relazionale o identitario.

Eppure andare dallo psicologo non è visto come un normale processo di promozione del benessere o terapeutico, bensì come l’anticamera per ammettere di essere sbagliati, matti, malati, e le definizioni negative potrebbero andare avanti ai limiti della fantasia.

L’aderenza dell’immagine del matto con la visione di sè come vulnerabile crea un’alterazione tale della realtà che condiziona le nostre scelte. Se è del tutto plausibile prenotare una visita dentistica piuttosto che una visita ortopedica per sofferenze legate a parti corporee specifiche, è impensabile prenotare un consulto psicologico, perché potrebbe assumere il significato di se stessi come malati mentali, del tipo: “Sto bene, non ho bisogno dello strizzacervelli!!”

Ciononostante un cervello ce l’abbiamo tutti, e questo bellissimo strumento di cui la natura ci ha dotato riesce a costruire meraviglie ma è soggetto, come ogni parte del nostro corpo, a empasse. Ma non si tratta ancora del cervello in se, perché dinanzi ad un mal di testa non disdegnamo di prendere una pastiglia o andare dal neurologo. Ciò che è difficile accettare sono le nostre emozioni, i nostri pensieri, le nostre difficoltà nelle relazioni: il nostro tallone d’Achille, ciò che fa sentire vulnerabili, che ci toglie la terra da sotto i piedi.

Tali interpretazioni sono di per sé limitative, ma possiamo aggiungere ciò che gli altri potrebbero pensare di noi, o ancora meglio, ciò che io credo che gli altri potrebbero pensare di me: lo stigma sociale. Ancora una volta la malattia organica è tollerata, ma il disagio mentale potrebbe rappresentare ancora un tabù. Quante conversazioni fra amiche, amici e familiari che ruotano intorno a quale accertamento è stato effettuato rispetto a quale lista di sintomi si è presentata. Ma di quello che si prova, quello che si pensa, come tutto ciò incide sulla qualità di vita, quello, se tollerato, è privato, non si diffonde.

Accanto a questi due pregiudizi (vulnerabilità come malattia mentale e stigma sociale) si possono delineare dubbi e incertezze circa il professionista: “Quale scelgo? In base a quali informazioni? Saprà comprendere la mia situazione? Mi giudicherà? Come scelgo di chi fidarmi? Come fare per scegliere un professionista competente?”

Sebbene le incertezze riguardo le competenze dello psicologo siano analoghe a quelle riguardanti qualsiasi professionista non conosciuto, è pur vero che è raro che le persone si informino sulle qualità dello psicologo nella propria rete sociale, per timore di essere additato come “quello che non sta bene con la testa”. Talvolta le opzioni sono 2:

  1. Ricerca su internet

  2. Tenersi il disagio, con la speranza che prima o poi passerà.

Entrambe queste soluzioni comportano dei rischi. La ricerca su internet è di per se limitante, in quanto l’elenco dei professionisti è legata a criteri di pubblicità, visibilità, piacevolezza estetica o lettura del curriculum vitae. Ma tali informazioni non possono essere utilizzate per stabilire se un professionista è competente, accogliente, umano, comprensivo: perché quando iniziamo un percorso di sostegno o cura, l’aspetto o la diffusione sui social del terapeuta diviene irrilevante, mentre assume spessore l’umanità e la competenza dello stesso. D’altronde non si va dal cardiologo perché ha una bella macchina, ma perché si prenda cura del nostro apparato cardiaco.

Anche la seconda soluzione, quello di aspettare tempi migliori, può essere rischioso. Talvolta le persone che ci stanno attorno possono sostenerci adeguatamente nei nostri periodi bui o riusciamo a risollevarci da soli dinanzi ad una caduta, ma non è così sempre, per tutti, per tutte le condizioni. Quando percepiamo di non avere più risorse, né personali, né sociali, allora è arrivato il tempo di agire, cercando un consulto professionale specifico.

Lo psicologo è un professionista della salute mentale, con un bagaglio di competenze accertate attraverso l’iscrizione ad un Albo professionale e il rispetto della normativa deontologica, che opera per promuovere, sostenere, diagnosticare, trattare situazioni di disagio, stress, disturbi clinici, problematiche relazionali e personologiche, senza giudizi, pregiudizi, rispettando le diverse opinioni, scelte religiose, sessuali, razziali, politiche, esistenziali.

E’ tenuto all’aggiornamento continuo e al confronto con le ricerche della comunità scientifica di riferimento, al fine di assicurare alla propria utenza il miglior intervento possibile.

L’ampio panorama degli approcci teorici e metodologici possono indurre l’utente ad una confusione dinanzi a quale tipo di psicologo contattare, ma proprio questa ricchezza di offerte rispecchia la complessità della mente e dell’essere umano in sè, e permette in tal modo di scegliere un trattamento più in linea con la propria personalità, a condizione che il trattamento in sé sia supportato da ricerche che convalidino la sua bontà, efficacia ed efficienza.