Ovviamente Francesca è un nome arbitrario, inventato, ciò che è reale è la domanda che mi è stata posta, alla quale dò una risposta pubblica in quanto ritengo possa essere utile, o almeno fonte di riflessione per alcuni.
“Dottoressa, mentre sbrigo le mie faccende quotidiane, spesso perdo , come dire, il filo. Provo a spiegarmi meglio: sto sistemando la casa prima di uscire per sbrigare alcune commissioni, sa le solite cose, letto, piatti….e ad un certo punto guardo l’orologio ed è già arrivato mezzogiorno, e non mi capacito di come sia volato il tempo e io non ho nemmeno terminato di rassettare casa. Eppure non ho una casa grande, dispersiva, e nemmeno un gran disordine di quello che non sai da dove iniziare…allora penso a come sono andate le cose, cosa ho fatto…e mi rendo conto che non ho fatto altro che pensare tutto il giorno…..Come faccio a non pensare?”.
La domanda posta da Francesca appare un paradosso: come non pensare. E’ possibile per un essere umano, dotato di una mente pensante, bloccare questa attività, come se ci fosse un interruttore nascosto da azionare o, viceversa, da disattivare a piacimento? La risposta è no, non esiste.
Noi siamo esseri pensanti, l’attività stessa della mente è relativa al pensiero stesso, anche se per utilità siamo abituati a definirla in vari modi: ragionamento, desiderio, valutazione, giudizio,strategia, soluzione a un problema.
Anche quando dormiamo la nostra mente è attiva, anche se a livelli differenti e in maniera inconscia, e questa attività è possibile riscontrarla nei sogni: tutti noi sogniamo, anche se alcuni non ricordano di averlo fatto.
Cosa sono allora questi pensieri di cui parla Francesca? E’ una patologia?
Innanzitutto è bene chiarire il concetto di patologia. Non esiste una condizione di benessere e una di malattia, bensì esiste un continuum, una linea immaginaria dove sono poste queste condizioni agli estremi e lungo la quale, in base alla presenza di determinate variabili (ambiente, stress, situazioni, stato di salute) si trova una persona in diversi momenti della sua quotidianità, o in prospettiva, della sua vita.
Ora, esistono delle condizioni relative al pensiero che, per presenza, pervasività, durata, gravità, possono configurarsi in condizioni cliniche conclamate (Disturbo ossessivo, disturbo d’ansia generalizzato, disturbo delirante, disturbo paranoide, etc), ma prima di collocare una persona in una determinata categoria diagnostica è bene effettuare un’indagine accurata al fine di porre, altrimenti escludere, una diagnosi.
Nel caso di Francesca, dopo un lavoro approfondito di assessment, è emerso che, al di là dell’etichetta diagnostica, si era instaurato un “circolo vizioso” tale che, da un pensiero emerso in maniera spontanea, relativo ad una situazione familiare in atto, si innescavano una serie di pensieri tali da impegnare la sua mente in questo lavoro di ipotesi, argomentazioni, valutazioni, giudizi, tentativi di trovare una soluzione e che lasciavano il corpo a “lavorare da solo”, in maniera automatica, abbandonando i concetti di spazio e di tempo, pur lasciando Francesca attiva.
Il timore presente era quello che tale perdita di contatto con la realtà potesse essere un sintomo relativo ad uno stato organico (inizio di demenza, presenza di un tumore al cervello, etc) oppure un segnale di imminente pazzia, e questo aggravava notevolmente il lavorio mentale, lasciando Francesca esausta a fine giornata, incidendo altresì sulla qualità del suo sonno.
Senza dilungarmi sulla terapia effettuata, ciò che in questo mio post intendo sottolineare è che la mente pensa, e in questa sua attività naturale può incappare in circoli viziosi che mantengono la sofferenza percepita dal soggetto e che a sua volta, tali circoli viziosi sono mantenuti attivi e rinforzati da fattori di mantenimento, che di per se sono tentativi di indagine (presenza o segnali di malattia), tentativi di soluzione (non devo pensare, come posso fare per non pensare) che però sortiscono l’effetto contrario a quello sperato.
In simili casi, la cosa più utile da fare è cercare una soluzione a carattere specialistico, psicoterapico, al fine di comprendere ed intervenire in maniera efficace sulla problematica in atto e trovare e apprendere quali strategie si rivelano utili per il singolo soggetto, in quanto ciò che funziona per uno non è detto che funzioni per l’altro.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale funziona come un laboratorio dove sono presenti 2 esperti: il primo è colui che è portatore di una soggettività che presenta un disagio, il secondo è il terapeuta che conosce la teoria e la tecnica con la quale è possibile intervenire efficacemente su determinati funzionamenti mentali ed emotivi. Solo la sinergia delle competenze e il gioco di squadra può dare luogo, dopo un lavoro approfondito, ai risultati definiti in maniera congiunta all’inizio del lavoro psicoterapico.
Concludendo, non si può fermare la mente a piacimento, bensì si possono trovare strategie utili, dopo una comprensione oggettiva del fenomeno in atto, al fine di uscire dal circolo vizioso e ritrovare un equilibrio del flusso dei pensieri.