Disturbo Oppositivo-Provocatorio in età evolutiva

Il Disturbo oppositivo-provocatorio (DOP) è una condizione clinica riscontrabile nei bambini che esibiscono livelli di rabbia persistente e inappropriata in base all’età, irritabilità, comportamenti provocatori verso l’adulto e oppositività, ai quali scaturiscono mal funzionamenti nella sfera personale e sociale.

Solitamente il DOP si manifesta intorno ai 6 anni, anche se spesso la diagnosi arriva in età preadolescenziale.

Si può diagnosticare il DOP in un bambino quando questi va spesso in collera, spesso litiga con gli adulti e sfida attivamente e si rifiuta di rispettare regole e richieste, quando spesso irrita in maniera volontaria le altre persone, quando spesso addebita le proprie responsabilità ad altri, negando le proprie, quando spesso è suscettibile, irritato dagli altri, rancoroso e rabbioso, dispettoso e vendicativo. Tale sintomatologia deve essere presente da almeno 6 mesi e deve causare una compromissione significativa del funzionamento sociale, scolastico, familiare.

Dagli ultimi dati divulgati dal Sispe (Sindacato italiano specialisti pediatri), nella figura del Presidente Teresa Mazzone, si evince come, a differenza di altre categorie cliniche che si possono riscontrare in età precoce (disturbi visivi, uditivi, del neurosviluppo) dove statisticamente non vi sono differenze significative nel corso degli anni, vi è un aumento esponenziale delle problematiche comportamentali, tra cui il DOP.

Questa condizione clinica appare essere facilmente osservabile negli studi pediatrici, anche se Mazzone invita a “differenziare le situazioni patologiche da quelle borderline ed ad apprendere quali siano le strategie di intervento e di comunicazione più efficaci da adottare con le famiglie”; grazie all’utilizzo di strumenti di screening progettati ad hoc e condivisi tra i professionisti, sarà possibile per il pediatra valutare i casi da inviare ad un consulto specialistico (psicologi psicoterapeuti, neuropsichiatri) e quelli dove è sufficiente un supporto (suggerimenti e consigli) comportamentale al bambino.

E’ possibile intervenire sul DOP con un intervento cognitivo-comportamentale, basato su un modello socio-cognitivo scientificamente fondato, dove si mettono a fuoco 2 processi differenti: da una parte le inabilità specifiche a livello cognitivo (deficit cognitivi), dall’altra le percezioni erronee e/o disfunzionali (distorsioni cognitive).

Il lavoro con un minore non può dirsi completo se privo del lavoro con i genitori, e se in età scolare con gli insegnanti, in quanto la sintomatologia è mantenuta dai circoli viziosi operanti dalle reazioni altrui, in primo luogo quelle delle figure di riferimento del bambino. Tale assunto non è facilmente compreso ed accettato dai genitori, soprattutto se sono presenti difficoltà comportamentali negli adulti in questione, che tendono a concentrare il problema e la sua soluzione sul bambino (“è lui il problema”) e non sulle interazioni che scorrono tra gli attori.

Altre ipotesi possono essere l’incapacità percepita nell’aiutare i propri figli o la totale presa di responsabilità della problematica in atto.

Dinanzi alla variabilità della risposta genitoriale, è necessario un lavoro condiviso e distribuito sull’intero sistema familiare, al fine di riconoscere e arrestare i circoli viziosi che mantengono il Disturbo.

Scuola…si ricomincia!!! Che paura

Per alcuni riparte la scuola, per altri inizia una nuova avventura attraverso l’ingresso nel mondo scuola.

Sia per chi riprende il percorso scolastico, sia per chi vi si affaccia per la prima volta, la scuola non rappresenta solo ore trascorse in un edificio ad apprendere delle nozioni, ma è un esperienza più complessa che racchiude molti altri elementi.

Vi sono componenti personali, relazionali, sociali in atto.

Oltre ad imparare, a scuola si conoscono nuove persone, adulti e coetanei, e si riprendono relazioni interrotte dalle vacanze estive, alcune positive, altre conflittuali. D’altronde, chi non ha avuto esperienza di un insegnante severo o di un compagno che esagerava e che non ci stava molto simpatico?

A questo si aggiungono previsioni su : compiti, studio, impegno, l’idea di un anno chiuso in una stanza mentre i nostri giorni spensierati divengono sempre meno vita vissuta e sempre più ricordi…

Perché così come esiste per gli adulti la malinconia da vacanza terminata, che per alcuni può assumere i connotati di una vera e propria sindrome, con sintomi emotivi, cognitivi, comportamentali e fisiologici, lo stesso vale per i bambini e i ragazzi.

E così succede che davanti ai cancelli di scuola, in attesa che suoni la campanella, si ascoltino racconti di mal di pancia, mal di testa, malumori, comportamenti oppositivi, e si leggono occhi impauriti, fissi su un punto, ad indicare l’atteggiamento di chi, invece di vivere il momento con curiosità e felicità nell’incontrare un nuovo compagno o ritrovarne uno lasciato a Giugno, è tutto concentrato ad anticipare mentalmente situazioni ritenute spiacevoli o pericolose, a rimuginare sulle conseguenze negative di eventuali performance scolastiche fallite, su come i maestri potrebbero proporre attività difficoltose rispetto alle quali ci si autovaluta in maniera negativa, e via dicendo.

Niente scenari apocalittici per i genitori, siamo in piena attività ansiogena.

Di per sé, la presenza dell’ansia non è patologica: questa emozione è stata predisposta dalla natura proprio con l’intento di prepararci all’azione, e l’attività fisiologica che è un tutt’uno con il vissuto emotivo pone le basi per la riuscita evolutiva dell’emozione stessa.

Il problema dell’attivazione fisiologica dell’ansia è che è spiacevole: mal di pancia, mal di testa, vomito, respiro corto o affannoso, tremore agli arti, palpitazioni, sudorazione, vertigini, sono tutti sintomi che ci inducono a valutare la situazione contingente come spiacevole, pericolosa, qualcosa di cui preoccuparci.

A questo punto il ruolo genitoriale diviene fondamentale: se un bambino vive l’ansia per il rientro a scuola, siamo dinanzi ad una catastrofizzazione dell’evento, e la differenza la fa l’atteggiamento dell’adulto.

Innanzitutto è necessario indagare senza porre enfasi e farsi prendere dal panico: da una parte arricchiamo il paniere delle informazioni al fine di escludere una reale condizione di malattia (ad es. una costipazione gastrointestinale o un principio di influenza), dall’altra trasmettiamo sicurezza e vicinanza.

In secondo luogo si presta attenzione ad un momento di difficoltà dell’Altro: sentirsi accudito in una situazioni di disagio comporta di per sè un notevole miglioramento, e attraverso l’ascolto partecipe e la condivisione il disagio percepito non è più concentrato in una persona sola, ma è diviso con chi è affettivamente vicino e, quindi, meno gravoso.

Infine, è importante normalizzare la problematica emersa: accogliendo la narrazione dell’Altro, fornendo comprensione e racconti di una situazione analoga vissuta, individuando insieme scenari alternativi di ciò che probabilmente si incontrerà.

L’importante è non sminuire il vissuto emerso, frasi del tipo “Non fare così, non preoccuparti, è stupido affrontare in questo modo la scuola” e via dicendo, non migliorano la situazione: le preoccupazioni non si mandano via a comando, ma si affrontano; il giudizio su una preoccupazione può far emergere vissuti di inadeguatezza e abbassare il livello di autostima; il disagio cognitivo ed emotivo verso una situazione temuta può trasformarsi in una problematica conclamata sé non affrontata con chiarezza, trasformando fantasmi in qualcosa di tangibile.

Può succedere che i genitori si sentano inadeguati nell’affrontare la situazione, o andare nel panico insieme ai figli, e questo può succedere per molti motivi differenti: carattere, temperamento, sentimenti di inadeguatezza o per vissuti emotivi analoghi di episodi del passato che hanno lasciato il segno. Qualsiasi sia il motivo individuato è bene armarsi ed affrontare questi eventuali limiti individuati, tenendo ben presente che il proprio figlio sta vivendo una situazione di disagio nel momento presente, ed è necessaria una azione contingente che non sempre coincide con analisi profonde e lavori psicologici personali lunghi.

E’ necessario riappropriarsi nel momento presente del proprio ruolo genitoriale, attraverso la presenza e la vicinanza “ora”, mettendo in stand-by le proprie insicurezze e assumendo un ruolo di guida, di riferimento, di presenza attiva e positiva, al fine di gestire al meglio la situazione emersa, che potrebbe non limitarsi al primo giorno di scuola, ma protrarsi per un periodo più o meno lungo, in base alla gravità della situazione stessa.

Se il ruolo genitoriale non risulta efficace, piuttosto che caricarsi di sentimenti negativi legati a impotenza, inefficacia, sensi di colpa e rabbia verso sè stessi, è più indicato chiedere un aiuto professionale che sostenga l’adulto in questo ruolo di per sé mai semplice, al fine di gestire al meglio la dinamica in atto.

La terapia cognitivo comportamentale risulta particolarmente utile in questi casi, perché di per sé è una terapia breve, strategica, aiuta ad acquisire in maniera consapevole strategie di coping per gestire le difficoltà, oltre a lavorare su aspetti più profondi e strutturati della personalità.

 

Vittime di Narciso. La Sindrome da Abuso Narcisistico

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Non è insolito leggere di Disturbi di Personalità su libri, riviste, internet, servizi televisivi. Tali disturbi sono descritti come costellazioni di personalità ben delineate, che generalmente comportano conseguenze significative nella qualità di vita di chi ne soffre e nelle relazioni sociali che tali soggetti instaurano, e sono caratterizzate da quadri emotivi, comportamentali, cognitivi e relazionali tipici per ogni disturbo. Molta la ricerca scientifica, molta la letteratura al riguardo, al fine di pervenire a modelli di intervento efficienti ed efficaci.

Un esempio è dato dal Disturbo Narcisistico di personalità: tali soggetti si sentono superiori, esigono ammirazione e sono scarsamente empatici; credono che il loro valore sia altissimo, grandioso, che i loro bisogni siano antecedenti a quelli degli altri e, pertanto, autorizzati a pretendere, sfruttare, offendere, calpestare gli altri, che di contro ritengono di poco valore, di secondo ordine. I soggetti narcisistici sono generalmente auto-centrati, arroganti, egoisti, si sentono superiori e invidiati.

Ma quali conseguenze affronta chi entra in contatto con questi soggetti ? Cosa può comportare entrare in relazione con una persona che soffre di un quadro clinico importante come quello di un disturbo di personalità?

In America è stato introdotto un nuovo disturbo, la Sindrome da Abuso Narcisistico (Narcissistic Abuse Syndrome), anche se ancora non riconosciuto ufficialmente, che a parere dei professionisti del settore Salute Mentale mira a dare dignità e comprensione ad un quadro sintomatologico rilevabile in soggetti vittime di narcisisti e che non sono ascrivibili alle caratteristiche di personalità del soggetto stesso.

Può accadere che persone con una sana vita relazionale stabiliscano rapporti sentimentali con persone che mentono, manipolano, abusano al punto da provocare un livello di stress talmente elevato da attivare tutta una serie di conseguenze:

  • sentimenti di tristezza fino alla disperazione

  • stato di ipervigilanza con conseguente ansia e paura

  • cambiamenti d’umore repentini, con predisposizione all’irritabilità, rabbia, vergogna, sensi di colpa, autoaccusa

  • stati mentali di dubbio percettivo, negazione, incredulità

  • difficoltà di concentrazione, con conseguente derealizzazione

  • isolamento sociale

  • perdita di controllo in diverse aree (personale, familiare, lavorativa).

La sintomatologia descritta appare simile a quella riscontrabile nel Disturbo post Traumatico da Stress (che può prendere avvio dal vivere esperienze forti e sconvolgenti, come terremoti, incidenti mortali, guerre, violenze fisiche e sessuali), ciò che varia è la causa attivante il disturbo.

Nella Sindrome da Abuso Narcisistico è la relazione abusante a dare il via al quadro sintomatologico (non deriva da caratteristiche psicologiche preesistenti nella vittima), è sempre caratterizzata da una forma di dipendenza indotta dal soggetto abusante, soprattutto con caratteristiche di personalità narcisista o psicopatica.

Sempre in America, sono stati compiuti studi relativi alle modificazioni cerebrali determinate da relazioni di tipo narcisistico come fonte primaria di stress, al fine di avvalorare quanto emerso in clinica.

D’altronde lo stress, indipendentemente dalla causa, comporta modificazioni negative significative su corpo e mente, deteriorandoli e influendo sulla qualità di vita e sul futuro: lo stress cronico può modificare le dimensioni del cervello, le sue strutture, il suo funzionamento ed è in grado di modificare anche il patrimonio genetico. In particolare lo stress cronico influisce sull’aumento delle connessioni cerebrali della paura e dell’aumento del rilascio di cortisolo, con 2 conseguenze importanti: diminuzione dei segnali elettrici nell’ippocampo (sede di apprendimento, memoria, controllo allo stress) e perdita di connessioni sinaptiche tra i neuroni e contrazione della corteccia prefrontale (zona del cervello coinvolta in concentrazione, decisione, giudizio, interazione sociale).

Dunque, la relazione con un soggetto abusante, con un disturbo di personalità narcisistico, può lasciare segni importanti sulla psiche di una persona, segni che non vanno nascosti, sottaciuti, negati, ma ascoltati e valutati presso specialisti della salute mentale, al fine di intervenire tempestivamente con percorsi di psicoterapia efficaci che riescano a dare voce, accettazione, sostegno, aiuto concreto ai sorprusi subiti e nuova linfa vitale.

La consulenza psicologica: quando e perché

Quando non conosciamo bene una cosa, è normale prendere informazioni su pregiudizi, informazioni insufficienti o credenze personali non basate su dati oggettivi.

Non siamo noi ad essere sbagliati, ma è la nostra mente che funziona così: siamo organismi in un ambiente ricco di informazioni, riceviamo imput da ogni dove e, attraverso gli organi di senso, dobbiamo elaborare le informazioni utili per effettuare una valutazione, formulare un giudizio, prendere una decisione e agire.

Tale processo necessita di una capacità importantissima: l’attenzione. Se non prestiamo la dovuta attenzione, le informazioni che ci giungono restano rumori di fondo e non vengono elaborati a livello centrale.

Se questo vale per ogni cosa che ci circonda, allora riguarda anche la possibilità di rivolgersi ad uno psicologo.

E’ chiaro per la maggior parte delle persone che se si presenta un mal di denti, la strategia più utile da adottare è quella di richiedere un consulto dal dentista, così come se un dolore alla gamba persiste oltre un tempo accettabile, sarà il caso di rivolgersi ad un ortopedico.

Ma quando rivolgersi ad uno psicologo? Se lo psicologo cura i matti, e non credo di appartenere a tale categoria, non posso andarci; e se dallo psicologo vanno coloro che sono deboli, insicuri, ma io non appartengo nemmeno a questa categoria….sarà meglio parlare con un amico, ma non risolvo granché, perché ne sa quanto me. Meglio cercare su internet? Dinanzi alle diagnosi, si apre un mondo di dubbi: potrei avere 2-3 disturbi, e chi mi circonda altrettanti, se non di più.

Se lo scenario tende ad assumere carattere di incertezza e pieno di dubbi persistenti, potrebbe risultare utile cercare di comprendere in cosa consiste una consulenza dello psicologo.

La consulenza psicologica non è dissimile dal consulto dal medico di base, ciò che cambia è la natura alla base del quesito: invece di mal di gola, dolori articoli, sbalzi di pressione, in genere il consulto dallo psicologo ha per oggetto emozioni negative persistenti, ansia, depressione, sbalzi di umore, stress, comportamenti disfunzionali, difficoltà relazionali, difficoltà sentimentali, domande irrisolte circa l’opportunità di intervenire in un ambito di vita nostra o di un nostro famigliare, domande circa lo stato di salute psicofisico, evitamenti che condizionano la qualità di vita, isolamento sociale, difficoltà scolastiche, abitudini disfunzionali (fumo, cibo, sedentarietà, etc), storie di vita traumatiche.

Ogni dubbio circa un ambito della nostra vita, riguardo il ruolo che assumiamo nella società (in quanto figli, genitori, lavoratori, cittadini), che non riesce a trovare soluzione nel normale scorrere della vita, e che ci condiziona e ci ritorna in mente in continuazione, come una sorta di rimuginio, probabilmente è degno di essere affrontato, e la consultazione psicologica è il luogo d’elezione per esprimere, dare forma a tali quesiti, non perché sono di per sé patologici, ma perché fanno parte della nostra esistenza, ci determinano come persone, nelle scelte che compiamo, nelle azioni che mettiamo in atto, in ciò che pensiamo, comunichiamo, crediamo.

La perseveranza nel dubbio non è utile a nessuno, in primo luogo a noi stessi, ma nemmeno a chi ci sta intorno: basti pensare ad una persona con un disturbo conclamato, come un disturbo d’ansia, che vive male la sua quotidianità, sempre attento ai mille pericoli che potrebbe trovare sulla propria strada, e intanto dipende dagli altri nelle normali faccende e spostamenti, condizionando inevitabilmente anche la vita degli altri; o ad un genitore che percepisce comportamenti inusuali in suo figlio, non sa darsi una spiegazione ma non agisce, in preda al dubbio se fosse il caso di farlo vedere da uno psicologo, per timore di compiere un errore, di essere inopportuno rispetto alla scelta dello specialista a cui rivolgersi, per timore di accentuare una soluzione che con il tempo potrebbe risolversi da sé.

Mille potrebbero essere gli esempi, in quanto è l’essere umano in sé ad essere complesso, costituito da mille sfaccettature della propria identità, esistenza, fase di vita, esperienze che si compiono, situazioni inaspettate che si impongono alla nostra percezione, scenari che si aprono e si chiudono e intanto ci lasciano il segno: nella maggior parte dei casi, la vita si affronta, si sceglie, con successi e fallimenti, o le si scivola accanto, soddisfatti di aver scampato un pericolo, ma non sempre, non in tutti i casi.

Alcune volte da soli non ce la facciamo, non per debolezza, forse gli ostacoli ci appaiono insormontabili, o proprio in quel momento non sentiamo dentro di noi la forza, la determinazione ad affrontarli, o non abbiamo informazioni sufficienti per formulare una valutazione sufficientemente buona, la nostra rete sociale non ha strumenti per sostenerci e per aiutarci: è il momento del coraggio, della consapevolezza, dell’azione.

E’  il caso di richiedere un consulto psicologico, per esprimere un disagio, un dubbio, per prendere consapevolezza di ciò che sta accadendo, per compiere il primo passo di un cambiamento che magari immaginiamo da tanto tempo e che abbiamo rimandato.

La consulenza psicologica è un momento di libera espressione, di ascolto partecipato, di accoglienza non giudicante, discreta e professionale, per ricevere un primo consiglio su come affrontare la situazione presentata, quali ulteriori informazioni sono necessarie per completare il quadro d’insieme, quali scenari d’intervento sono possibili, quali gli invii ad altri specialisti sono maggiormente indicati, se necessari.

Non è vincolante rispetto ad un percorso terapeutico, in genere si conclude in poche sedute, in base alla complessità del quesito posto, basate sul segreto professionale.

Un ulteriore ostacolo all’idea di avvalersi di una consulenza psicologica è rappresentato dal costo: se per una domanda a carattere organico ci si avvale del medico di base in maniera gratuita, lo psicologo fornisce tale prestazione dietro compenso, nel suo studio privato.

Purtroppo la questione è aperta anche per la Professione, in quanto è da anni che da diverse parti del settore psicologico ci sono pressioni affinché sia introdotto nel sistema sanitario la figura dello psicologo di base, che sia di accesso facile e gratuito all’interno di ambulatori supportati dal sistema sanitario stesso o convenzionati, ma nonostante i vantaggi riconosciuti da studi effettuati in diversi Stati,(come in Inghilterra, dove lo psicologo è inserito nel sistema di sanità pubblica come qualsiasi altro medico specialista, con relativa riduzione della spesa nel settore), in Italia non è stato ancora recepita l’opportunità di avvalersi di tale figura in maniera diffusa e capillare, in maniera simile ai medici di medicina generale.

Nell’attesa di tempi migliori, la consulenza psicologica resta un servizio espletato dallo psicologo nel settore privato, dunque soggetto ad un costo, vincolato comunque ai parametri forniti dall’Ordine Nazionale degli Psicologi nel tariffario professionale, e inferiore ai costi delle consulenze di altri specialisti del settore sanitario.

Anoressia Nervosa: un quadro d’insieme

Tra i Disturbi del Comportamento Alimentare, l’anoressia è di certo uno dei più conosciuti, sia per le conseguenze fisiche che si evincono dalla mera osservazione di un soggetto con tale patologia, sia per la diffusione di informazioni a carico dei mass media e delle associazioni che lavorano sulla prevenzione a fronte dell’alto tasso di mortalità che tale patologia comporta.

L’Anoressia Nervosa è un disturbo caratterizzato dalla presenza di evidenti alterazioni del comportamento alimentare, che ha il proprio esordio tipicamente nell’adolescenza (anche se l’età media di insorgenza tende a scendere progressivamente) con l’adozione di regole dietetiche rigide ed estreme.

Sovente la dinamica si attiva della semplice adozione di una dieta per raggiungere uno standard di peso desiderato, ma il raggiungimento dell’obiettivo assume i connotati di insoddisfazione, di ulteriore perseveranza di un obiettivo che appare sempre più sfuggente ed inarrivabile, con relativo calo del peso oltre i normali valori di Indice di Massa Corporea (BMI), che raggiunge valori legati al sottopeso, anche grave. Oltre alla dieta ferrea, alcuni individui adottano l’esercizio fisico eccessivo e compulsivo, altri metodi di condotta di eliminazione (vomito, lassativi, diuretici).

Ciò che appare centrale in questo disturbo è l’alterazione della percezione di peso e immagine corporea: questi due elementi vengono percepiti dal soggetto in modo alterato, non conforme ad un dato oggettivo, ed il vissuto che accompagna tali percezioni è di ansia, vergogna, negazione, disgusto.

Per fronteggiare le emozioni negative la strategia adottata dal soggetto anoressico è rappresentata dal controllo del cibo ingerito, dalla negazione del senso di fame, dalla messa di atto di comportamenti compensatori, che danno luogo, in definitiva, a sensazioni di benessere, che sostengono la sintomatologia anoressica attraverso l’attivazione di circoli viziosi.

La percezione di autocontrollo diviene apparente e superficiale: se dall’esterno è facile osservare soggetti determinati a perseguire uno stile di vita controllato, aderente a regole fisse e rigide, a carattere alimentare, di attività fisica, lavorativa, di studio, nel profondo i soggetti anoressici sono caratterizzati da livelli di stress importanti (al fine di mantenere una organizzazione di comportamenti altamente elaborata), da spirali di emozioni negative (che si attivano nel momento in cui ci si discosta anche lievemente del must autoimposto), dal progressivo isolamento sociale, dal calo dei livelli di prestazioni a cui sono abituati.

L’autostima è incentrata unicamente sull’immagine corporea, a dispetto delle diverse sfaccettature di una personalità multideterminata.

La componente cognitiva del disturbo è rappresentata dalla negazione, soprattutto a se stessi, della gravità fisiologica, mentale, emotiva, sociale del disturbo, dovuta all’alterazione di peso e immagine corporea sopracitata: emerge chiaramente come le persone che soffrono di tale disturbo non hanno alcuna motivazione a chiedere aiuto e a sostenere un trattamento. Il soggetto anoressico percepisce un senso di benessere tanto più significativo quanto più sente di avvicinarsi all’obiettivo prefissato (basso peso ponderale), sottovalutando lo stato di deprivazione alimentare a cui sottopone il suo corpo e le complicanze fisiche che ne scaturiscono (basse difese immunitarie, riduzione proteine plasmatiche, caduta di capelli, alterazioni del quadro endocrino, danni all’apparato digerente, cardiocircolatorio, respiratorio, renale, muscolo-scheletrico e nervoso).

Se si giunge ad una consultazione specialistica, generalmente queste persone sono portate dai familiari, testimoni impotenti del declino ponderale e delle regole dietetiche estreme adottate, e la loro presenza è funzionale a placare i timori dei familiari, piuttosto che da una reale consapevolezza del proprio stato di salute.

L’aderenza al trattamento medico e psicologico presenta diverse criticità, legate all’assenza di consapevolezza della malattia: i soggetti anoressici si sentono bene nel loro corpo scarno, pertanto non comprendono la necessità di modificare lo stato delle cose.

Il primo passo è dunque il lavoro sulla motivazione, che risulta indispensabile e preparatorio all’intervento nutrizionale e psicologico, al fine di “ingaggiare” il soggetto anoressico in un sistema di significati condiviso, dove il terapeuta non rappresenta una minaccia, ma anzi diviene alleato nella comprensione delle dinamiche in atto, nella ricerca di nuovi obiettivi e strategie adattivi e funzionali.

Fantasie e paure sulla figura dello psicologo

Negli ultimi anni, sulla scena della salute e del benessere si sta affermando sempre di più la figura dello psicologo, e questo grazie alla maggior diffusione di professionisti sul territorio, alle campagne di promozione (ad esempio la settimana del benessere psicologico in Ottobre) e sensibilizzazione su molti temi eterogenei (tavole rotonde multidisciplinari che vedono la copresenza di psicologi e altri specialisti della salute).

Aumentano le persone che richiedono un consulto allo psicologo, così come di pari passo cresce la domanda di benessere psicologico attraverso la partecipazione a corsi o gruppi tematici gestiti da psicologi.

Eppure, nonostante nelle conversazioni quotidiane si possa esprimere la necessità di recarsi dallo psicologo, non sempre ciò che si dice viene trasformato in una azione concreta.

Le motivazioni possono essere varie, e spesso non difformi dai buoni propositi sul migliorare il proprio stato di salute organico per poi farsi prendere dai mille impegni quotidiani.

Accanto a queste “dimenticanze” generali, esistono delle motivazioni che ruotano specificatamente attorno alla figura dello psicologo.

Partiamo dalla più diffusa e facilmente intuibile: il timore della vulnerabilità. E’ comune alla condizione umana attraversare periodi più o meno impegnativi, stressanti, in cui ci si può sentire inadeguati piuttosto che sbagliati, per breve o lungo tempo, a livelli che variano dalla lieve percezione alla avanzata severità. O è normale sentirsi tristi o depressi o rabbiosi. Può capitare anche di ritrovarsi in una spirale di disagio emotivo, relazionale o identitario.

Eppure andare dallo psicologo non è visto come un normale processo di promozione del benessere o terapeutico, bensì come l’anticamera per ammettere di essere sbagliati, matti, malati, e le definizioni negative potrebbero andare avanti ai limiti della fantasia.

L’aderenza dell’immagine del matto con la visione di sè come vulnerabile crea un’alterazione tale della realtà che condiziona le nostre scelte. Se è del tutto plausibile prenotare una visita dentistica piuttosto che una visita ortopedica per sofferenze legate a parti corporee specifiche, è impensabile prenotare un consulto psicologico, perché potrebbe assumere il significato di se stessi come malati mentali, del tipo: “Sto bene, non ho bisogno dello strizzacervelli!!”

Ciononostante un cervello ce l’abbiamo tutti, e questo bellissimo strumento di cui la natura ci ha dotato riesce a costruire meraviglie ma è soggetto, come ogni parte del nostro corpo, a empasse. Ma non si tratta ancora del cervello in se, perché dinanzi ad un mal di testa non disdegnamo di prendere una pastiglia o andare dal neurologo. Ciò che è difficile accettare sono le nostre emozioni, i nostri pensieri, le nostre difficoltà nelle relazioni: il nostro tallone d’Achille, ciò che fa sentire vulnerabili, che ci toglie la terra da sotto i piedi.

Tali interpretazioni sono di per sé limitative, ma possiamo aggiungere ciò che gli altri potrebbero pensare di noi, o ancora meglio, ciò che io credo che gli altri potrebbero pensare di me: lo stigma sociale. Ancora una volta la malattia organica è tollerata, ma il disagio mentale potrebbe rappresentare ancora un tabù. Quante conversazioni fra amiche, amici e familiari che ruotano intorno a quale accertamento è stato effettuato rispetto a quale lista di sintomi si è presentata. Ma di quello che si prova, quello che si pensa, come tutto ciò incide sulla qualità di vita, quello, se tollerato, è privato, non si diffonde.

Accanto a questi due pregiudizi (vulnerabilità come malattia mentale e stigma sociale) si possono delineare dubbi e incertezze circa il professionista: “Quale scelgo? In base a quali informazioni? Saprà comprendere la mia situazione? Mi giudicherà? Come scelgo di chi fidarmi? Come fare per scegliere un professionista competente?”

Sebbene le incertezze riguardo le competenze dello psicologo siano analoghe a quelle riguardanti qualsiasi professionista non conosciuto, è pur vero che è raro che le persone si informino sulle qualità dello psicologo nella propria rete sociale, per timore di essere additato come “quello che non sta bene con la testa”. Talvolta le opzioni sono 2:

  1. Ricerca su internet

  2. Tenersi il disagio, con la speranza che prima o poi passerà.

Entrambe queste soluzioni comportano dei rischi. La ricerca su internet è di per se limitante, in quanto l’elenco dei professionisti è legata a criteri di pubblicità, visibilità, piacevolezza estetica o lettura del curriculum vitae. Ma tali informazioni non possono essere utilizzate per stabilire se un professionista è competente, accogliente, umano, comprensivo: perché quando iniziamo un percorso di sostegno o cura, l’aspetto o la diffusione sui social del terapeuta diviene irrilevante, mentre assume spessore l’umanità e la competenza dello stesso. D’altronde non si va dal cardiologo perché ha una bella macchina, ma perché si prenda cura del nostro apparato cardiaco.

Anche la seconda soluzione, quello di aspettare tempi migliori, può essere rischioso. Talvolta le persone che ci stanno attorno possono sostenerci adeguatamente nei nostri periodi bui o riusciamo a risollevarci da soli dinanzi ad una caduta, ma non è così sempre, per tutti, per tutte le condizioni. Quando percepiamo di non avere più risorse, né personali, né sociali, allora è arrivato il tempo di agire, cercando un consulto professionale specifico.

Lo psicologo è un professionista della salute mentale, con un bagaglio di competenze accertate attraverso l’iscrizione ad un Albo professionale e il rispetto della normativa deontologica, che opera per promuovere, sostenere, diagnosticare, trattare situazioni di disagio, stress, disturbi clinici, problematiche relazionali e personologiche, senza giudizi, pregiudizi, rispettando le diverse opinioni, scelte religiose, sessuali, razziali, politiche, esistenziali.

E’ tenuto all’aggiornamento continuo e al confronto con le ricerche della comunità scientifica di riferimento, al fine di assicurare alla propria utenza il miglior intervento possibile.

L’ampio panorama degli approcci teorici e metodologici possono indurre l’utente ad una confusione dinanzi a quale tipo di psicologo contattare, ma proprio questa ricchezza di offerte rispecchia la complessità della mente e dell’essere umano in sè, e permette in tal modo di scegliere un trattamento più in linea con la propria personalità, a condizione che il trattamento in sé sia supportato da ricerche che convalidino la sua bontà, efficacia ed efficienza.

Sovrappeso e obesità in età evolutiva

Sempre più frequentemente sui mass-media e nelle riviste specializzate si parla del problema del sovrappeso nella popolazione giovanile, e i dati che vengono divulgati presentano una situazione allarmante.

L’Italia è ai primi posti in Europa per il numero di bambini in sovrappeso e i dati sono destinati a peggiorare in quanto in Europa il sovrappeso in età scolare cresce al ritmo di circa 400.000 casi l’anno.

 Dal 30 al 60% dei bambini obesi mantengono l’eccesso ponderale in età adulta e presentano, più frequentemente del previsto, alterazioni metaboliche e complicanze rispetto all’obesità che si manifesta in età adulta.

I dati italiani sembrano confermare questo trend: l’ISTAT parla di ragazzi compresi tra i 6 e i 17 che presentano un eccesso ponderale nel 24% dei casi, percentuale che conferma i dati emersi da un’indagine epidemiologica dell’Istituto Superiore di Sanità (2008) effettuata su un campione rappresentativo di bambini frequentanti la terza classe della Scuola primaria (8 anni), con percentuali stimate intorno al 23,2% di bambini sovrappeso e il 12% di bambini obesi.

Il sovrappeso rappresenta una condizione problematica ampia, dove si sommano alterazioni a carattere medico, stigma sociale, problematiche psicologiche.

Un bambino che presenta un eccesso ponderale significativo può andare incontro a una serie di problemi a carattere medico nel futuro: i disturbi più frequentemente legati al sovrappeso comprendono i disturbi cardiocircolatori e osteo-articolari, insorgenza di diabete, ipertensione.

Lo stigma sociale rappresenta un ulteriore scoglio nella vita di un bambino sovrappeso/obeso: solitamente i bambini hanno un linguaggio molto schietto e laddove intravedono vulnerabilità rispetto ad una caratteristica di un compagno, non esitano a sottolinearla mettendola in evidenza con termini offensivi o comunque “coloriti”. Se questi commenti o definizioni possono essere legati ad uno scherzo più o meno bonario, nel bambino “etichettato” questi commenti possono prendere forma di timori e insicurezze, possono evidenziarsi vulnerabilità legate a temi quali accettazione, piacevolezza personale e sociale, integrazione nel gruppo, immagine corporea e autostima, possono originarsi disturbi clinici conclamati.

Ne derivano problematiche psicologiche di varia natura ed entità (ansia, depressione, ritiro sociale, disturbi alimentari), in base alla struttura di personalità che nel bambino va delineandosi e prendendo forma. E’ importante ricordare che un bambino, seppur in tenera età, è pur sempre una persona, dotata di temperamento, carattere, desideri, aspettative, fragilità, all’interno della quale le basi sono state poste attraverso le prime relazioni, in primis qualla materna, e altre andranno a costituirsi e consolidarsi nelle relazioni con i pari.

Al fine di contenere la diffusione di questa condizione nella popolazione infantile, la Società Italiana di Pediatria ha stilato il seguente decalogo di buone prassi:

  1. Controllare il peso e la statura con regolarità (almeno ogni sei mesi)

  2. Fare cinque pasti al giorno evitando i “fuoripasto”

  3. Consumare almeno cinque porzioni di frutta o verdura al giorno

  4. Bere molta acqua limitando le bevande zuccherate

  5. Ridurre i grassi a tavola, in particolare salumi, fritti, condimenti, dolci

  6. Evitare di utilizzare il cibo come “premio”

  7. Privilegiare il gioco all’aperto, possibilmente almeno un’ora al giorno

  8. Camminare a piedi in tutte le occasioni possibili

  9. Praticare uno sport con regolarità.

  10. Limitare la “videodipendenza” durante il tempo libero: massimo 2 ore al giorno.

A carattere psicologico si delineano percorsi di sostegno al minore attraveso interventi comportamentali a carattere familiare, che comprendono cambiamenti virtuosi:

  1. dello stile alimentare,

  2. dello stile di vita (sedentario vs attivo),

  3. della comunicazione tra i componenti del nucleo familiare

e interventi singoli e di gruppo

  1. di sostegno emotivo e motivazionale.