Festività natalizie. Quando la festa non è festa.

§§§

 

Dottoressa, non va bene. Si avvicina Natale, in giro ci sono tante luci, tante persone che corrono di qua e di là, felici, tanti pacchetti, e regali e gran sorrisi, tutti belli, eleganti, con un gran da fare, …..e anche io ne avrei di cose da fare…tra un poco arrivano un po di parenti lontani, qualche dono lo dovrei preparare anche io,  ma……non me la sento. E poi, a parte che rimando sempre e il tempo mi sta sfuggendo tra le dita, è che non ne ho proprio voglia.

 

Dalle sue parole mi sembra di capire che non trova dentro di sé la voglia, il desiderio di essere presente e attiva in questo spirito natalizio che La circonda. E’ così?

 

Si.

 

Può spiegarmi meglio?

 

E’ che mi sembra che ciò che mi circonda sia falso, irreale, a momenti. In altri momenti penso che sono io quella sbagliata, quella triste in un mondo pieno di felicità. Ma, Dottoressa, di cosa dovrei essere felice? Lei conosce i miei guai, non riesco a venirne a capo. O almeno, in alcuni periodi va meglio, come in questi ultimi mesi, ma poi arrivano queste feste dove DEVI essere felice, tutti quelli con cui parli ti dicono di farti coraggio e di sorridere, ma come faccio, se dentro sto morendo? 

 

 

Quando una persona si trova in uno stato di sofferenza o fragilità, anche a fronte di condizioni cliniche conclamate, vive quotidianamente nel disagio, senza interruzione per feste e vacanze.

Nello specifico, Natale è per tutti la Festa, sia per i credenti che per gli non crede, in quanto occasione per stare in compagnia di persone care.

Eppure non per tutti è così, per differenti ragioni. Comune a queste persone è il vissuto di estraneità, di tristezza, di vuoto e disperazione che può derivare dal  confronto tra ciò che si sta vivendo e “la normale gioia che circonda il Natale”. E’ questo gap, questa differenza percepita soggettivamente, ritenuta abissale, che attiva o riattiva pensieri negativi automatici, che a loro volta mettono in moto circoli viziosi che sono alla base di un’escalation di sofferenza.

Riconoscere le proprie vulnerabilità e cercare un sostegno professionale è un buon punto di partenza per intervenire positivamente sulla propria salute mentale.

Lavorare su di sé, in termini di pensieri ed emozioni, sulle proprie credenze, sulle personali idiosincrasie è un dono che facciamo a noi stessi, all’insegna della autopromozione di una buona qualità di vita.

Studi Aperti…perché? Il sostegno dei caregivers e non solo

Il Mese del benessere psicologico promosso dall’Ordine degli Psicologi della Regione Puglia, e al quale aderisce lo studio Psicoterapia Cognitiva Bracci, è un importante occasione per promuovere il benessere inteso in maniera complessa, sistemica, inclusiva.

Molto spesso le persone che richiedono un consulto psicologico sono coloro che vivono uno stato conclamato di disagio psicologico e accettano l’idea che un aiuto non sia un segnale di debolezza, bensì il primo passo per risolvere la problematica in atto. Pertanto la richiesta di aiuto arriva da persone che pagano un prezzo molto alto sulla propria pelle per questioni inerenti ansia, depressione, stress cronico, pensieri intrusivi, violenza subìta.

In tal modo restano esclusi da questo circuito molte altre persone che comunque beneficerebbero di un sostegno psicologico, vuoi perché non avrebbero tempo per recarsi alle sedute, vuoi perché non potrebbero sostenere economicamente un simile percorso, vuoi perché ritengono di non necessitare di un aiuto professionale, essendo il proprio disagio scaturito da dinamiche esterne immutabili.

Ad esempio, quante persone ho incontrato in maniera informale che lamentavano un livello di stress molto alto dovuto all’assistenza di una persona cara con una grave patologia neurologica, come ad esempio l’Alzheimer. Spesso i caregivers (ovvero coloro che si prendono cura di una persona con patologie conclamate) sono soggette ad un carico di lavoro molto oneroso, che va ben oltre un livello sostenibile nel lungo tempo. Quando si ottiene una diagnosi del genere, non è la singola persona che viene investita dall’infausta notizia, ma tutto il sistema familiare, questo perché tali diagnosi comportano modifiche cerebrali tali da riguardare la sfera personale (in termini di abilità, percezione, memoria) ma anche modifiche emotive e relazionali. In molti casi il caregiver ritiene che una salda volontà sia sufficiente a sostenere un simile carico, e probabilmente nel breve periodo potrebbe rivelarsi utile una simile considerazione. Eppure nel lungo periodo tutto cambia: diviene difficile gestire il carico di lavoro quotidiano, mantenere un equilibrio emotivo, mantenere uno spazio di autonomia personale e di vita sociale: ciò scaturisce dalle caratteristiche stesse della sindrome di Alzheimer, che investe più ambiti, perdura nel tempo e comporta livelli di aggravamento progressivi. Molto gioverebbe a questi caregivers ritagliarsi uno spazio di ascolto e sostegno, dove potersi esprimere e confrontarsi con chi conosce tali situazioni, al fine di abbassare i livelli di emotività, ritrovare un livello di equilibrio accettabile, normalizzare il vissuto negativo legato a sentimenti di inefficacia, sensi di colpa, rabbia, etc.

Lo stesso ragionamento vale per coloro che vivono con malattie organiche, proprie o dei familiari, dove vi sono scarsa aderenza al trattamento e conseguenze sociali importanti: diabete, tumori, sla, autismo, malattie cardiache, obesità, e l’elenco potrebbe continuare.

Perché dinanzi alla malattia non basta solo la cura farmacologica, in quanto non è solo il corpo a soffrire, ma anche la sfera psicologica ne è investita.

E’ uso comune considerare corpo e psiche come due entità distinte, e anche nei tempi antichi è stata presente questa dicotomia e numerosi i dibattiti scientifici e filosofici tra i fautori delle due interpretazioni.

Corpo e mente sono collegate, non potrebbe essere altrimenti, e la cura dell’uno presuppone la cura dell’altro e non è mai tardi riconsiderare questa separazione, se la abbiamo operata, e porvi rimedio.

Non ultimi coloro che vivono una vita piena, tranquilla, “normale”, eppure si ritrovano a fare i conti con un infanzia che ha lasciato il segno: genitori assenti o troppo presenti, episodi importanti che non si riescono a collocare nel passato e si ripresentano in ogni scelta, credenze e valori scaturiti da stili familiari che sono stati subìti e ai quali si reagisce ancora oggi in maniera oppositiva, sentimenti di rabbia o tristezza che condizionano il presente perché non elaborati e accettati, credenze su come si è sbagliati, inadeguati, indegni. Spesso non solo i singoli soggetti a pagare il conto di questioni non irrisolte, ma anche chi condivide spazi di vita, come il/la coniuge, i figli, gli amici: spettatori di dinamiche che si ripresentano quotidianamente o a brevi intervalli, in base alla pervasività del passato e al grado di consapevolezza personale o di negazione.

Il Mese del benessere psicologico si pone proprio questo obiettivo: dare spazio alla nostra soggettività, alla sofferenza che ognuno di noi vive quotidianamente, alle vulnerabilità che ci appartengono per non considerarle più l’ospite scomodo da scacciare (anche perché non si riesce) ma ad accoglierle, dare voce e trovare uno spazio dove imparare a gestirle.

PERCHE’ NOI SIAMO ANCHE QUESTO E OGNI LATO DEL NOSTRO ESSERE E’ IMPORTANTE.