Disturbo d’ansia per la salute

E’ una delle condizioni cliniche più antiche della storia della civiltà, già al tempo di Ippocrate e negli scritti relativi a quell’epoca se ne ritrova traccia: l’ipocondria, attualmente denominata disturbo d’ansia per la salute.

Il termine antico deriva dalla denominazione greca della zona superiore dell’addome, luogo corporeo di grande importanza per la dottrina ippocratica degli ‘umori’, soprattutto in rapporto con il configurarsi della melancolia a cui l’ipocondria venne collegata.

Nel II secolo d.C. il vocabolo fu utilizzato proprio nell’ambito della dottrina relativa alla melancolia per designare, in particolare in Galeno, una vera e propria malattia, che venne definita hypochondriacum flatulentumque morbum. La concezione galenica si è sostanzialmente mantenuta fino al 19° secolo; ancora nel 1845, infatti, W. Griesinger, neurologo e psichiatra tedesco, riteneva gli stati ipocondriaci come forme minori e più lievi della follia, includendoli in tal modo nel concetto di stati depressivi psichici.

Emil Kraepelin nel 1896 suggerì una interessante distinzione tra hypochondria cum materia, ovvero con disturbi reali ma sopravvalutati, e hypochondria sine materia, ovvero senza alcuna basa oggettiva.

Per questo lungo periodo l’ipocondria è stata interpretata e concettualizzata in differenti modi, ma nell’essenza ha sempre indicato uno stato di profondo timore di aver contratto o di trovarsi in una condizione di grave malattia, di cui si avvertivano i segnali premonitori e di cui il medico sottostimava la portata, con la conseguenza di spingere la persona a cercare continuamente conferme o smentite attraverso consultatazioni mediche sempre più dettagliate.

Attualmente l’ipocondria ha mutato nome (Disturbo d’ansia per la salute) ma non sono cambiate le caratteristiche del disturbo in sé: la differente denominazione si è resa necessaria per allinearsi agli studi più recenti e aggiornati, che hanno individuato un carattere di continuità tra l’ipocondria e il funzionamento dei disturbi ansiosi.

Il soggetto che soffre di questo disturbo si automonitora, cioè si “ascolta” continuamente: ogni sensazione fisica viene indagata scrupolosamente, continuamente, attribuendo un significato catastrofico alle sensazioni percepite, collegandole a malattie gravi. A questo automonitoraggio seguono diversi comportamenti: la ricerca di conferme presso il medico di base, al quale vengono richieste visite continue, pareri, analisi sempre più invasive, esami di laboratorio, con conseguente aumento di richiesta di prescrizioni farmaceutiche, il più delle volte non necessarie, rassicurazioni su ogni sensazione rilevata, e di consultazioni specialistiche. Nonostante il focus medico così dettagliato, non si evince miglioramento o soluzione al dubbio sulla propria salute, tanto che tali soggetti hanno la tendenza a ricercare ossessivamente, in proprio, informazioni sulle malattie temute sui libri di medicina, navigando sui siti tematici, fino ad autodiagnosticarsi malattie e sindromi, generalmente molto gravi e con esiti fatali.

In genere tali soggetti arrivano a richiedere esami sempre più invasivi e costosi, gravando in misura considerevole sui costi del Sistema Sanitario; non solo, le conseguenze gravano anche sul sistema familiare ed amicale, attraverso la continua condivisione dei sintomi emersi e sul loro livello di gravità e attraverso la costante richiesta di rassicurazioni e supporto. Non ultimo, il costo personale in termini di sofferenza psicologica, di tempo investito in una ricerca senza fine, di stress legato alla visione di sé come vulnerabile ed incompreso, sia dalla propria rete sociale, sia dai rappresentanti del settore medico.

Attualmente, il trattamento cognitivo-comportamentale rappresenta il percorso di cura d’elezione del disturbo d’ansia per la salute, grazie alla concettualizzazione teorica e d’intervento proposta da un clinico  inglese, studioso della materia, il dott. P. Salkovskis, che negli anni 90, sulle ricerche effettuate, ha elaborato un modello di comprensione del disturbo basato sul funzionamento dei disturbi ansiosi.

Attraverso la concettualizzazione cognitiva del disturbo d’ansia per la salute, oggi è possibile intervenire ed ottenere buoni risultati di risoluzione della dinamica ansiosa, grazie ad un lavoro psicoterapico incentrato su: conoscenza del disturbo, rilevazione dei circoli viziosi che incrementano la gravità del disturbo in sé, i fattori di mantenimento che il soggetto mette in atto e che sostengono la dinamica nel tempo.


Attacchi di panico e Disturbo da Panico

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“Un mostro opprimente che mi totalizza. Tutto diventa nero, soffocante, irreale….la testa gira, mille pensieri si affacciano, e nessuno che riesco a mettere a fuoco.

Mi sento come se la mente non mi rispondesse, non mi appartenesse, mi sento di impazzire.”

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“Parte la sudorazione, mentre il cuore batte a mille e le mani sono un tremore.

Non respiro, ho un nodo alla gola che me lo impedisce. E sento che sto per morire.

Solo l’intervento dei medici del Pronto Soccorso mi salva.”

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Le esperienze vissute dalle persone che hanno avuto un attacco di panico sono piene d’angoscia, di sofferenza, di soffocante disperazione. Eppure sono così differenti nei sintomi che si presentano, differenti nelle valutazioni cognitive che accompagnano questi episodi di ansia acuta.

Vi sono casi in cui prevalgono sintomi incentrati su palpitazioni, eccessiva sudorazione, tremori, dolori al petto, altri in cui prevalgono affollamenti di pensieri negativi, sensazioni di perdita di controllo e perdita di contatto con la realtà circostante (derealizzazione), altri in cui prevalgono vertigini, tremori, debolezza alle gambe. E altre possono essere le combinazioni di sintomi che si presentano in una persona con un attacco di panico, partendo da 13 sintomi possibili e necessari per poter formulare tale diagnosi. Tali costellazioni sintomatologiche sono accompagnate da 4 timori specifici: avere un infarto, svenire, soffocare, impazzire.

Generalmente, una persona che sperimenta un attacco di panico tende a mettere in atto una serie di comportamenti atti ad impedire che questo possa verificarsi nuovamente, ovvero gli evitamenti: è molto comune in chi ha sperimentato un attacco di panico mentre era in automobile tendere a evitare di mettersi alla guida, rinunciare a prendere il treno piuttosto che l’aereo, non andare al cinema per timore che possa sopraggiungere un attacco mentre si è nella folla della sala e non riuscire a fuggire in tempo, non abbassare la testa per evitare che possano presentarsi le vertigini.

Insieme agli evitamenti, è comune riscontrare una serie di comportamenti di protezione, ovvero comportamenti che idealmente impediscono di raggiungere l’apice di intensità dell’ansia, cercando di gestire al meglio la comparsa delle prime sensazioni fisiche: per chi è svenuto durante l’attacco, cercare una sedia su cui poggiarsi appena le gambe iniziano a tremare per la debolezza, farsi accompagnare negli spostamenti, controllare la respirazione per non iperventilare.

Ne deriva tutta una serie di limitazioni nel contesto di vita e della propria libertà dovute alla necessità di poter mettere in atto queste forme di protezione ed questi evitamenti come strategie di contrasto all’attacco di panico.

D’altronde l’ansia non è una emozione gradevole, e sperimentarla a livelli di intensità elevati non rientra tra le esperienze di vita che si ripetono volentieri.

La messa in atto di questi evitamenti non garantisce la risoluzione degli attacchi di panico, che possono comparire in ulteriori contesti ambientali, con livelli di intensità crescenti, con 2 conseguenze principali: incremento degli evitamenti e dei comportamenti di protezione, in una dinamica di circolo vizioso, e la comparsa del vissuto di impotenza.

Le strategie messe in atto dai soggetti con attacchi di panico poggiano sul buon senso, ma le dinamiche da cui questi si generano e che sono mantenuti nel tempo sono estranee a questa logica, tanto che chi generalmente cerca di gestire in solitaria queste esperienze emotive negative non ottiene buoni risultati, anzi la tendenza è quella di contribuire al mantenimento della sintomatologia ansiosa, creando i presupposti affinché uno o due episodi si trasformino in un Disturbo da Panico.

La ricerca di uno specialista per poter risolvere questo disturbo in genere avviene quando la sintomatologia ansiosa è tale da impedire il naturale scorrere degli eventi quotidiani, quando la sofferenza è giunta a livelli non più sopportabili, quando l’oppressione è tale da non permettere una vita piena e vissuta in tutti i suoi ambiti.

Tali soggetti sono timorosi di affrontare gli eventi, vivono costantemente in stato di vigilanza pronti a cogliere alle prime manifestazioni i sintomi temuti, non comunicano volentieri nella propria rete sociale il dolore che stanno vivendo, si vergognano della piega che la loro vita sta prendendo, isolandosi sempre maggiormente, vivendo in solitaria il terrore che tendono ad allontanare a tutti i costi.

Eppure gli attacchi di panico e il relativo Disturbo sono patologie su cui grandi passi sono stati compiuti nel campo del trattamento psicologico. La loro concettualizzazione teorica nel campo della terapia cognitivo-comportamentale ha raggiunto livelli di eccellenza, sono stati elaborati protocolli d’intervento efficaci nella gestione e risoluzione del disturbo, in un ottica di psicoterapia breve.

La perseveranza nella sofferenza, laddove si sia presentato un Disturbo da Panico, non è giustificata dall’assenza di trattamenti efficaci nella sua risoluzione, ma è mantenuta dalla mancanza di informazioni, di accesso alle cure nel Sistema Sanitario, nella diffidenza verso la figura dello psicoterapeuta, nei costi talvolta onerosi per sostenere un percorso psicoterapico.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale è un trattamento specialistico, utile per affrontare il Disturbo da Panico, basato su una solida concettualizzazione teorica e metodologica, sostenuto dalla ricerca internazionale basata su criteri di bontà riconosciuti nel campo scientifico.

E’ una psicoterapia breve, economica dal punto di vista costi-benefici, si avvale di protocolli di intervento validati dalla ricerca, è efficace nel risolvere molti disturbi psicologici, tra cui il Disturbo da Panico.

Ansia normale e patologica

L’ansia, di per sé, è un’emozione primaria, innata,  indipendente dal contesto d’apprendimento e culturale (famosi gli studi sulle espressioni facciali legate alle emozioni in bambini molto piccoli), presente nel bambino già verso l’ottavo mese di vita, dove si presenta come paura dell’estraneo.

Come tutte le emozioni, ha un forte valore comunicativo e sociale, basata sull’impronta evolutiva di predisposizione di una risposta adeguata e adattiva agli stimoli presenti nell’ambiente. Aumento battito cardiaco, sudorazione, iperventilazione, tremori e tensione muscolari risultano essere aggiustamenti fisiologici avviati da un comando a carattere del sistema nervoso centrale per favorire nell’organismo una risposta di tipo “attacca, scappa o immobilizzati” dinanzi ad un pericolo.

Dunque l’ansia prepara un organismo a reagire ad una minaccia, in maniera immediata, non ragionata, in quanto il ragionamento, seppur in forma ridotta, comporta un impegno di tempo che l’organismo non si può permettere dinanzi ad un pericolo imminente.

Questa argomentazione ci illumina su come tra l’uomo e gli altri mammiferi vi sia una linea di continuità: basti pensare alle reazioni fulminee che siamo abituati ad osservare nei documentari naturalistici, dove la preda “scatta” alla percezione del minimo movimento da parte del predatore, e come questi compia movimenti quasi impercettibili al fine di avvicinarsi quanto più possibile alla preda presa di mira.

Le reazioni fisiologiche che sono presenti nell’ansia trovano spiegazione e comprensione nella dinamica sopra citata: l’organismo che percepisce la minaccia attiva in un tempo limitatissimo tutte le risorse di cui dispone per fronteggiare il pericolo o per scappare, dunque l’ossigeno deve essere presente in gran quantità per irradiare ogni parte del corpo, il cuore deve pompare tutto l’ossigeno necessario, ogni muscolo deve essere pronto e teso, la concentrazione massima per percepire minimi variazioni nell’ambiente circostante.

Eppure l’emozione in generale, e in questo caso l’ansia, si avvale di una componente cognitiva, un giudizio iniziale, ciò che R. Lazarus (1966) chiama “valutazione primaria”, che consiste nel riconoscimento di una situazione come minaccia e nella valutazione della probabilità, l’immediatezza e il grado di possibile conseguente danno. Se tale giudizio è notevolmente negativo, l’organismo non prova a fuggire, in quanto la fuga risulterebbe inutile, ma “si congela” (freezing), basandosi sull’assunto che, sempre prendendo come esempio il mondo animale, il predatore non si cibi di animali morti, per non ingerire cibo avariato, compromettendo la propria esistenza.

Questo tipo di reazione, il freezing, seppur difficilmente trova applicazione nel genere umano odierno, in quanto non è comune il cannibalismo, si può riscontrare in diverse situazioni ansiogene, in quanto le reazioni emotive sono state inglobate nel nostro cervello dei nostri antenati preistorici milioni di anni fa, consolidate nelle strutture limbiche nella parte più profonda e antica del telencefalo e correlate alle funzioni fondamentali per la conservazione della specie.

Dunque l’ansia è un’emozione importante, ma si presenta all’esperienza soggettiva come tendenzialmente spiacevole: se una lieve tensione che accompagna l’azione può essere sopportata e gestita nel breve periodo, un’ansia forte dà luogo a forti sensazioni fisiologiche che, insieme ad una valutazione primaria negativa e ad un tempo maggiore di persistenza, può produrre sensazioni estremamente sgradevoli ed insopportabili.

E’ ciò che si sperimenta nell’ansia forte e nell’ansia patologica (attacchi di panico, disturbo da panico, agorafobia, ipocondria, ansia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo, ansia specifica, ansia generalizzata).

La prima può verificarsi in presenza di forti minacce di pericolo o laddove si valuti un evento particolarmente grave, immediato, comportante gravi conseguenze: maggiore è la minaccia, maggiore sono le risorse messe in campo per fronteggiarla.

La seconda si sperimenta nel momento in cui tutta la costellazione sintomatologica si attiva in assenza di un reale pericolo o in contesti ambientali che di per sé non comportano minacce.

In questo caso le reazioni più frequenti sono: allarme sulle sensazioni percepite, utilizzo di comportamenti di protezione, evitamento.

Lo spaventarsi delle sensazioni corporee percepite come sgradevoli in genere comportano un aumento di ansia, con conseguente peggioramento della situazione.

L’utilizzo di comportamenti di protezione (sedersi, sdraiarsi, allontanarsi, etc.) possono produrre un beneficio nel breve periodo, ma nel lungo periodo non risolvono la situazione ansiogena né producono benefici consistenti.

L’evitamento (non frequentare luoghi dove si presenta la sintomatologia, non guidare, non parlare in pubblico, etc.), oltre a peggiorare e a prolungare il disagio psicologico in atto, conduce alla lunga ad un peggioramento della qualità di vita di una persona, che vede restringere intorno a sé gli ambiti di interesse e di azione, all’insegna dell’impoverimento della vita in generale e limitazioni al proprio valore personale.

 

Anoressia Nervosa: un quadro d’insieme

Tra i Disturbi del Comportamento Alimentare, l’anoressia è di certo uno dei più conosciuti, sia per le conseguenze fisiche che si evincono dalla mera osservazione di un soggetto con tale patologia, sia per la diffusione di informazioni a carico dei mass media e delle associazioni che lavorano sulla prevenzione a fronte dell’alto tasso di mortalità che tale patologia comporta.

L’Anoressia Nervosa è un disturbo caratterizzato dalla presenza di evidenti alterazioni del comportamento alimentare, che ha il proprio esordio tipicamente nell’adolescenza (anche se l’età media di insorgenza tende a scendere progressivamente) con l’adozione di regole dietetiche rigide ed estreme.

Sovente la dinamica si attiva della semplice adozione di una dieta per raggiungere uno standard di peso desiderato, ma il raggiungimento dell’obiettivo assume i connotati di insoddisfazione, di ulteriore perseveranza di un obiettivo che appare sempre più sfuggente ed inarrivabile, con relativo calo del peso oltre i normali valori di Indice di Massa Corporea (BMI), che raggiunge valori legati al sottopeso, anche grave. Oltre alla dieta ferrea, alcuni individui adottano l’esercizio fisico eccessivo e compulsivo, altri metodi di condotta di eliminazione (vomito, lassativi, diuretici).

Ciò che appare centrale in questo disturbo è l’alterazione della percezione di peso e immagine corporea: questi due elementi vengono percepiti dal soggetto in modo alterato, non conforme ad un dato oggettivo, ed il vissuto che accompagna tali percezioni è di ansia, vergogna, negazione, disgusto.

Per fronteggiare le emozioni negative la strategia adottata dal soggetto anoressico è rappresentata dal controllo del cibo ingerito, dalla negazione del senso di fame, dalla messa di atto di comportamenti compensatori, che danno luogo, in definitiva, a sensazioni di benessere, che sostengono la sintomatologia anoressica attraverso l’attivazione di circoli viziosi.

La percezione di autocontrollo diviene apparente e superficiale: se dall’esterno è facile osservare soggetti determinati a perseguire uno stile di vita controllato, aderente a regole fisse e rigide, a carattere alimentare, di attività fisica, lavorativa, di studio, nel profondo i soggetti anoressici sono caratterizzati da livelli di stress importanti (al fine di mantenere una organizzazione di comportamenti altamente elaborata), da spirali di emozioni negative (che si attivano nel momento in cui ci si discosta anche lievemente del must autoimposto), dal progressivo isolamento sociale, dal calo dei livelli di prestazioni a cui sono abituati.

L’autostima è incentrata unicamente sull’immagine corporea, a dispetto delle diverse sfaccettature di una personalità multideterminata.

La componente cognitiva del disturbo è rappresentata dalla negazione, soprattutto a se stessi, della gravità fisiologica, mentale, emotiva, sociale del disturbo, dovuta all’alterazione di peso e immagine corporea sopracitata: emerge chiaramente come le persone che soffrono di tale disturbo non hanno alcuna motivazione a chiedere aiuto e a sostenere un trattamento. Il soggetto anoressico percepisce un senso di benessere tanto più significativo quanto più sente di avvicinarsi all’obiettivo prefissato (basso peso ponderale), sottovalutando lo stato di deprivazione alimentare a cui sottopone il suo corpo e le complicanze fisiche che ne scaturiscono (basse difese immunitarie, riduzione proteine plasmatiche, caduta di capelli, alterazioni del quadro endocrino, danni all’apparato digerente, cardiocircolatorio, respiratorio, renale, muscolo-scheletrico e nervoso).

Se si giunge ad una consultazione specialistica, generalmente queste persone sono portate dai familiari, testimoni impotenti del declino ponderale e delle regole dietetiche estreme adottate, e la loro presenza è funzionale a placare i timori dei familiari, piuttosto che da una reale consapevolezza del proprio stato di salute.

L’aderenza al trattamento medico e psicologico presenta diverse criticità, legate all’assenza di consapevolezza della malattia: i soggetti anoressici si sentono bene nel loro corpo scarno, pertanto non comprendono la necessità di modificare lo stato delle cose.

Il primo passo è dunque il lavoro sulla motivazione, che risulta indispensabile e preparatorio all’intervento nutrizionale e psicologico, al fine di “ingaggiare” il soggetto anoressico in un sistema di significati condiviso, dove il terapeuta non rappresenta una minaccia, ma anzi diviene alleato nella comprensione delle dinamiche in atto, nella ricerca di nuovi obiettivi e strategie adattivi e funzionali.

Sovrappeso e obesità in età evolutiva

Sempre più frequentemente sui mass-media e nelle riviste specializzate si parla del problema del sovrappeso nella popolazione giovanile, e i dati che vengono divulgati presentano una situazione allarmante.

L’Italia è ai primi posti in Europa per il numero di bambini in sovrappeso e i dati sono destinati a peggiorare in quanto in Europa il sovrappeso in età scolare cresce al ritmo di circa 400.000 casi l’anno.

 Dal 30 al 60% dei bambini obesi mantengono l’eccesso ponderale in età adulta e presentano, più frequentemente del previsto, alterazioni metaboliche e complicanze rispetto all’obesità che si manifesta in età adulta.

I dati italiani sembrano confermare questo trend: l’ISTAT parla di ragazzi compresi tra i 6 e i 17 che presentano un eccesso ponderale nel 24% dei casi, percentuale che conferma i dati emersi da un’indagine epidemiologica dell’Istituto Superiore di Sanità (2008) effettuata su un campione rappresentativo di bambini frequentanti la terza classe della Scuola primaria (8 anni), con percentuali stimate intorno al 23,2% di bambini sovrappeso e il 12% di bambini obesi.

Il sovrappeso rappresenta una condizione problematica ampia, dove si sommano alterazioni a carattere medico, stigma sociale, problematiche psicologiche.

Un bambino che presenta un eccesso ponderale significativo può andare incontro a una serie di problemi a carattere medico nel futuro: i disturbi più frequentemente legati al sovrappeso comprendono i disturbi cardiocircolatori e osteo-articolari, insorgenza di diabete, ipertensione.

Lo stigma sociale rappresenta un ulteriore scoglio nella vita di un bambino sovrappeso/obeso: solitamente i bambini hanno un linguaggio molto schietto e laddove intravedono vulnerabilità rispetto ad una caratteristica di un compagno, non esitano a sottolinearla mettendola in evidenza con termini offensivi o comunque “coloriti”. Se questi commenti o definizioni possono essere legati ad uno scherzo più o meno bonario, nel bambino “etichettato” questi commenti possono prendere forma di timori e insicurezze, possono evidenziarsi vulnerabilità legate a temi quali accettazione, piacevolezza personale e sociale, integrazione nel gruppo, immagine corporea e autostima, possono originarsi disturbi clinici conclamati.

Ne derivano problematiche psicologiche di varia natura ed entità (ansia, depressione, ritiro sociale, disturbi alimentari), in base alla struttura di personalità che nel bambino va delineandosi e prendendo forma. E’ importante ricordare che un bambino, seppur in tenera età, è pur sempre una persona, dotata di temperamento, carattere, desideri, aspettative, fragilità, all’interno della quale le basi sono state poste attraverso le prime relazioni, in primis qualla materna, e altre andranno a costituirsi e consolidarsi nelle relazioni con i pari.

Al fine di contenere la diffusione di questa condizione nella popolazione infantile, la Società Italiana di Pediatria ha stilato il seguente decalogo di buone prassi:

  1. Controllare il peso e la statura con regolarità (almeno ogni sei mesi)

  2. Fare cinque pasti al giorno evitando i “fuoripasto”

  3. Consumare almeno cinque porzioni di frutta o verdura al giorno

  4. Bere molta acqua limitando le bevande zuccherate

  5. Ridurre i grassi a tavola, in particolare salumi, fritti, condimenti, dolci

  6. Evitare di utilizzare il cibo come “premio”

  7. Privilegiare il gioco all’aperto, possibilmente almeno un’ora al giorno

  8. Camminare a piedi in tutte le occasioni possibili

  9. Praticare uno sport con regolarità.

  10. Limitare la “videodipendenza” durante il tempo libero: massimo 2 ore al giorno.

A carattere psicologico si delineano percorsi di sostegno al minore attraveso interventi comportamentali a carattere familiare, che comprendono cambiamenti virtuosi:

  1. dello stile alimentare,

  2. dello stile di vita (sedentario vs attivo),

  3. della comunicazione tra i componenti del nucleo familiare

e interventi singoli e di gruppo

  1. di sostegno emotivo e motivazionale.

La Terapia Cognitivo Comportamentale

Negli ultimi tempi è sempre più diffusa la cultura del benessere psicologico, cioè la consapevolezza che non solo il corpo, ma anche la mente necessitano di attenzione, buone pratiche di gestione delle difficoltà e percorsi di sostegno e cura mirati ad affrontare problematiche che hanno un impatto importante sulla salute globale dell’individuo.

Quando ad una persona fa male una gamba va dal medico curante e successivamente dall’ortopedico; se si presentano problemi al petto si va dal cardiologo.Ma se le difficoltà si presentano a livello emotivo, a chi ci si rivolge? Al momento è assente nel SSN la figura dello psicologo di base, che sarebbe un professionista analogo al medico di base, anche se l’Ordine degli Psicologi è da anni che lavora a questo progetto.

L’alternative al momento disponibili sono il passaparola ed il web.La prima soluzione è praticabile da coloro che hanno superato il pregiudizio e la vergogna legata alla fragilità emotiva e che fa coincidere lo psicologo con lo “strizzacervelli che cura i matti” ed incontra i limiti della conoscenza sul territorio di questo specialista nella propria rete sociale.

La seconda soluzione apre un mondo sconosciuto: psicologi senza specializzazione, psicologi con master, psicologi psicoterapeuti, psicoterapeuti psichiatri….Ma a chi rivolgersi? Quale differenza esiste tra le differenti e numerose terapie? Quale farà al mio caso?

La vastità delle terapie presenti nel panorama psicologico e l’assenza di un referente autorevole in materia (come il medico di base) che possa accogliere la richiesta d’aiuto e veicolarla verso lo strumento (il tipo di approccio) maggiormente efficace per un determinato problema, rende alquanto difficoltoso poter accedere ad un percorso di cura ad hoc, o almeno ci introduce in un terreno misterioso dove non si è certi di aver effettuato la giusta scelta se non facendone esperienza diretta.La terapia cognitivo-comportamentale (TCC) è un tipo di approccio basato sulle teorie della mente attualmente più accreditate dalla comunità scientifica internazionale e si avvale di strumenti di modificazione comportamentale che si sono rivelati utili nel produrre cambiamenti significativi in diversi disturbi clinici.

La TCC costituisce il “gold standard”, ossia l’approccio terapeutico di maggior efficacia valutato con studi randomizzati e controllati, per tutti i Disturbi d’ansia (Disturbo di panico, Ansia sociale, Disturbo d’ansia generalizzata, Disturbi somatoformi, Fobie specifiche) e per i Disturbi dell’umore (Depressione, Distimia, Disturbo bipolare).

Le ultime evidenze di efficacia arrivano da ricercatori americani (David, Cristea e Hofmann 2018) i quali sostengono che la CBT (in Italiano TCC) è il trattamento gold standard che attualmente abbiamo a disposizione nel campo della psicoterapia per i seguenti motivi:

1) La CBT è la forma di psicoterapia che ha il maggior numero di studi che ne hanno valutato l’efficacia.

2) Nessuna altra forma di psicoterapia ha dimostrato di essere sistematicamente superiore alla CBT; se ci sono differenze sistematiche tra le psicoterapie, in genere favoriscono la CBT – si vedano per esempio i trial sulla bulimia nervosa, dove la CBT è risultata significativamente più efficace della psicoterapia psicoanalitica (Poulsen, et al., 2014) e della psicoterapia interpersonale (Fairburn, et al., 2015).

3) I modelli teorici e i meccanismi di cambiamento delle CBT sono stati i più studiati e sono in linea con gli attuali paradigmi tradizionali della mente e del comportamento umano (per es. il processamento delle informazioni).Pertanto, gli autori concludono che la CBT domina le linee guida internazionali per i trattamenti psicosociali, grazie al suo chiaro supporto derivato dalla ricerca, ed è il trattamento di prima linea per molti disturbi, come raccomandato dalle linee guida del National Institute for Health and Care Excellence e dell’American Psychological Association. Ciò nonostante gli autori sottolineano come, sebbene la CBT sia efficace, il lavoro di ricerca deve proseguire, perché alcuni pazienti non rispondono al trattamento oppure ricadono dopo un periodo di remissione sintomatologica.

Depressione. Descrizione e trattamento

Il disturbo depressivo è la malattia mentale più diffusa e sembra in continua crescita (World Health Organization, 1998; 1999).

Ogni anno si ammalano di depressione quasi 100 milioni di individui in tutto il mondo e di questi il 75% non viene trattato o riceve cure inappropriate.

I tassi di prevalenza nell’arco della vita del disturbo depressivo maggiore, per un periodo superiore ai 12 mesi, oscillano tra il 2,6% e il 12,7% negli uomini e tra il 7% e il 21% nelle donne, e si stima che circa un terzo della popolazione soffrirà di un episodio di depressione lieve durante la propria vita.

I possibili esiti della depressione possono essere molto gravi, comportando un notevole deterioramento del funzionamento psicosociale, fino ad arrivare al suicidio.

Tra i pazienti depressi la probabilità di suicidio è del 15% circa. I fattori di rischio suicidario possono essere diversi. Quelli principali evidenziati dagli studi attualmente presenti in letteratura sono:

  • l’appartenenza al sesso maschile;

  • la presenza di ideazione suicidarla;

  • il ritiro sociale;

  • i sentimenti di disperazione, oltre che la durata dell’episodio depressivo ( più tempo dura, più cresce il rischio che la persona commetta suicidio).

Anche quando non si arriva al suicidio, la presenza di un disturbo depressivo può portare comunque a gravi compromissioni nella vita di chi ne soffre: non si riesce più a lavorare o a studiare, a coltivare interessi e mantenere relazioni sociali e affettive, a provare piacere e interesse in alcuna attività.

I pazienti che soffrono di disturbi depressivi presentano uno stato di salute peggiore, un maggior rischio di invalidità e di assenza dal lavoro, una compromissione delle prestazioni lavorative, maggiori difficoltà relazionali in famiglia, maggiore incapacità nell’adempiere il proprio ruolo genitoriale ed un aumento significativo nell’utilizzo dei servizi sanitari.

Misurando le cause di morte, l’incapacità a lavorare, la disabilità e le risorse mediche necessarie, si può ipotizzare che tra circa 15 anni la depressione clinica avrà un peso sulla salute internazionale secondo solo alla malattia cardiaca cronica (Hartley, 1998; WHO, 1998).

Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV; APA 1994, DSM V, 2014), chi soffre di disturbo depressivo maggiore presenta, per almeno due settimane:

  • un umore depresso (tristezza, disforia, irritabilità, disperazione, etc.) per tutta la giornata quasi ogni giorno

  • assenza di interesse e piacere nelle attività che prima lo interessavano e lo facevano stare bene.

Ad almeno uno di questi due sintomi se ne aggiungono minimo altri quattro, tra cui

  • faticabilità;

  • cambiamento significativo di peso;

  • disturbi del sonno;

  • agitazione o rallentamento motorio;

  • sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi;

  • difficoltà di concentrazione, di pensiero e di prendere decisioni;

  • pensieri ricorrenti di morte, ideazione suicidaria o tentativi di suicidio.

Per poter porre diagnosi di disturbo depressivo maggiore, la persona non deve aver mai sofferto nella sua vita di altri tipi di alterazione patologica dell’umore quali episodi maniacali, ipomaniacali o misti (depressione e ipo/maniacalità contemporaneamente).

I sintomi depressivi possono comparire quasi improvvisamente in modo acuto in persone che generalmente hanno una personalità “ottimista e allegra” o possono essere presenti da diverso tempo in forma lieve e sottosoglia (distimia) con alcuni momenti o periodi di peggioramento.

Se si considerano quindi, la vasta diffusione dei disturbi depressivi, la loro natura invalidante e l’alto tasso di prevalenza di forme subcliniche, i cui sintomi non arrivano a soddisfare i criteri diagnostici, ma sono significativamente correlati alla probabilità di sviluppare in seguito un episodio depressivo più grave, ci si rende conto di quanto sia importante riconoscere il prima possibile i sintomi depressivi e curarli efficacemente.

Questo impegno diviene ancora più urgente, arrivando a costituire una reale emergenza nel campo della salute mentale, dal momento che i casi di depressione sono sempre più in aumento tra le persone giovani, adolescenti e giovani adulti, e quindi in persone che sono nell’età in cui si costruiscono i mattoni della vita futura, come studiare e trovare un lavoro, fare amicizie, trovare un amore e metter su famiglia.

L’approccio cognitivo ha da sempre posto molta attenzione alla comprensione e alla cura della depressione. Attualmente è uno dei trattamenti più efficaci, tanto che le linee guida internazionali dell’APA (1993, 2000) indicano la Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC) come scelta privilegiata nella cura della depressione, associata ai farmaci antidepressivi quando la depressione è grave.

La prima formulazione del modello cognitivo della depressione risale agli inizi degli anni sessanta, quando vennero pubblicati due articoli e un libro di Aaron T. Beck, in cui l’Autore descrive le principali ipotesi esplicative e il protocollo di terapia (1963, 1964, 1967). Da allora sono state avanzate e studiate diverse ipotesi cognitiviste sul disturbo depressivo, la maggior parte delle quali in linea con quelle di Beck. Ancora oggi il modello esplicativo di Beck è la formulazione più nota in clinica e nella ricerca e il suo protocollo terapeutico rimane il più efficace per i disturbi depressivi e costituisce la base dell’intera terapia cognitiva.