Gruppo di gestione dell’ansia

Nella pratica clinica è presente un elenco di disturbi clinici riferibili ai sintomi ansiosi, derivanti da caratteristiche specifiche relative ad una costellazione sintomatologica, e sono:

  • DAP, disturbo da attacchi di panico
  • DAG, disturbo d’ansia generalizzata
  • DAS, disturbo d’ansia sociale
  • disturbo d’ansia per la salute (ipocondria)
  • disturbo somatoforme
  • DPTS, disturbo post-traumatico da stress
  • disturbo dell’adattamento
  • fobia specifica

E’ possibile concepire tutti i precedenti come declinazioni di una macrocategoria, ossia la Sindrome Ansiosa, dove è presente un nucleo centrale psicopatologico caratterizzato da un pattern emotivo e cognitivo specifico, con un sistema di funzionamento simile ai diversi disturbi e mantenuto da simili meccanismi.

Pertanto, laddove il setting psicoterapico individuale è mirato al caso specifico riportato in seduta dal paziente, con il lavoro di gruppo si può lavorare sui meccanismi di innesco e di mantenimento della sintomatologia ansiosa  comuni, intervenendo sulle caratteristiche specifiche della singola esperienza individuale  attraverso la condivisione delle esperienze, ricerca di significati e strategie di coping in maniera corale.

Sia il lavoro individuale che quello di gruppo presentano vantaggi e svantaggi. Rispetto al lavoro psicoterapico in setting individuale, il gruppo di gestione dell’ansia ha in primis un vantaggio economico, con un costo più contenuto; è presente anche un vantaggio esperienziale, laddove il percorso condiviso rispetto ad un disagio e sofferenza ritenute strettamente personali, insormontabili, riferibili ad una propria scarsa efficacia, sono condivise tra i partecipanti, con un impatto positivo sulle emozioni negative secondarie; infine un vantaggio metodologico, dato dalla condivisione della psicoeducazione e degli homework (test, schede, diari) che in tal modo risultano maggiormente comprensibili.

 

Per poter accedere al gruppo di gestione dell’ansia è necessario prenotare un primo incontro psicodiagnostico, al fine di determinare se presente o meno un disturbo ansioso.

Se presente, sarà possibile chiedere informazioni più specifiche in termini di orari, giorni, costi, o altre informazioni.

All’interno del gruppo sono presenti regole alle quali fare riferimento, in primis quelle riferite alla privacy, nel rispetto della dignità e diritto alla riservatezza di ciascun partecipante.

 

In linea generale il gruppo di gestione dell’ansia partirà al raggiungimento della quota di iscritti pari a 3, fino ad un max di 6 partecipanti; gli incontri si svolgeranno 1 volta a settimana per un tempo di circa 90 minuti.

Scuola…si ricomincia!!! Che paura

Per alcuni riparte la scuola, per altri inizia una nuova avventura attraverso l’ingresso nel mondo scuola.

Sia per chi riprende il percorso scolastico, sia per chi vi si affaccia per la prima volta, la scuola non rappresenta solo ore trascorse in un edificio ad apprendere delle nozioni, ma è un esperienza più complessa che racchiude molti altri elementi.

Vi sono componenti personali, relazionali, sociali in atto.

Oltre ad imparare, a scuola si conoscono nuove persone, adulti e coetanei, e si riprendono relazioni interrotte dalle vacanze estive, alcune positive, altre conflittuali. D’altronde, chi non ha avuto esperienza di un insegnante severo o di un compagno che esagerava e che non ci stava molto simpatico?

A questo si aggiungono previsioni su : compiti, studio, impegno, l’idea di un anno chiuso in una stanza mentre i nostri giorni spensierati divengono sempre meno vita vissuta e sempre più ricordi…

Perché così come esiste per gli adulti la malinconia da vacanza terminata, che per alcuni può assumere i connotati di una vera e propria sindrome, con sintomi emotivi, cognitivi, comportamentali e fisiologici, lo stesso vale per i bambini e i ragazzi.

E così succede che davanti ai cancelli di scuola, in attesa che suoni la campanella, si ascoltino racconti di mal di pancia, mal di testa, malumori, comportamenti oppositivi, e si leggono occhi impauriti, fissi su un punto, ad indicare l’atteggiamento di chi, invece di vivere il momento con curiosità e felicità nell’incontrare un nuovo compagno o ritrovarne uno lasciato a Giugno, è tutto concentrato ad anticipare mentalmente situazioni ritenute spiacevoli o pericolose, a rimuginare sulle conseguenze negative di eventuali performance scolastiche fallite, su come i maestri potrebbero proporre attività difficoltose rispetto alle quali ci si autovaluta in maniera negativa, e via dicendo.

Niente scenari apocalittici per i genitori, siamo in piena attività ansiogena.

Di per sé, la presenza dell’ansia non è patologica: questa emozione è stata predisposta dalla natura proprio con l’intento di prepararci all’azione, e l’attività fisiologica che è un tutt’uno con il vissuto emotivo pone le basi per la riuscita evolutiva dell’emozione stessa.

Il problema dell’attivazione fisiologica dell’ansia è che è spiacevole: mal di pancia, mal di testa, vomito, respiro corto o affannoso, tremore agli arti, palpitazioni, sudorazione, vertigini, sono tutti sintomi che ci inducono a valutare la situazione contingente come spiacevole, pericolosa, qualcosa di cui preoccuparci.

A questo punto il ruolo genitoriale diviene fondamentale: se un bambino vive l’ansia per il rientro a scuola, siamo dinanzi ad una catastrofizzazione dell’evento, e la differenza la fa l’atteggiamento dell’adulto.

Innanzitutto è necessario indagare senza porre enfasi e farsi prendere dal panico: da una parte arricchiamo il paniere delle informazioni al fine di escludere una reale condizione di malattia (ad es. una costipazione gastrointestinale o un principio di influenza), dall’altra trasmettiamo sicurezza e vicinanza.

In secondo luogo si presta attenzione ad un momento di difficoltà dell’Altro: sentirsi accudito in una situazioni di disagio comporta di per sè un notevole miglioramento, e attraverso l’ascolto partecipe e la condivisione il disagio percepito non è più concentrato in una persona sola, ma è diviso con chi è affettivamente vicino e, quindi, meno gravoso.

Infine, è importante normalizzare la problematica emersa: accogliendo la narrazione dell’Altro, fornendo comprensione e racconti di una situazione analoga vissuta, individuando insieme scenari alternativi di ciò che probabilmente si incontrerà.

L’importante è non sminuire il vissuto emerso, frasi del tipo “Non fare così, non preoccuparti, è stupido affrontare in questo modo la scuola” e via dicendo, non migliorano la situazione: le preoccupazioni non si mandano via a comando, ma si affrontano; il giudizio su una preoccupazione può far emergere vissuti di inadeguatezza e abbassare il livello di autostima; il disagio cognitivo ed emotivo verso una situazione temuta può trasformarsi in una problematica conclamata sé non affrontata con chiarezza, trasformando fantasmi in qualcosa di tangibile.

Può succedere che i genitori si sentano inadeguati nell’affrontare la situazione, o andare nel panico insieme ai figli, e questo può succedere per molti motivi differenti: carattere, temperamento, sentimenti di inadeguatezza o per vissuti emotivi analoghi di episodi del passato che hanno lasciato il segno. Qualsiasi sia il motivo individuato è bene armarsi ed affrontare questi eventuali limiti individuati, tenendo ben presente che il proprio figlio sta vivendo una situazione di disagio nel momento presente, ed è necessaria una azione contingente che non sempre coincide con analisi profonde e lavori psicologici personali lunghi.

E’ necessario riappropriarsi nel momento presente del proprio ruolo genitoriale, attraverso la presenza e la vicinanza “ora”, mettendo in stand-by le proprie insicurezze e assumendo un ruolo di guida, di riferimento, di presenza attiva e positiva, al fine di gestire al meglio la situazione emersa, che potrebbe non limitarsi al primo giorno di scuola, ma protrarsi per un periodo più o meno lungo, in base alla gravità della situazione stessa.

Se il ruolo genitoriale non risulta efficace, piuttosto che caricarsi di sentimenti negativi legati a impotenza, inefficacia, sensi di colpa e rabbia verso sè stessi, è più indicato chiedere un aiuto professionale che sostenga l’adulto in questo ruolo di per sé mai semplice, al fine di gestire al meglio la dinamica in atto.

La terapia cognitivo comportamentale risulta particolarmente utile in questi casi, perché di per sé è una terapia breve, strategica, aiuta ad acquisire in maniera consapevole strategie di coping per gestire le difficoltà, oltre a lavorare su aspetti più profondi e strutturati della personalità.

 

Disturbo d’ansia sociale

Chiunque nella vita ha fatto esperienza di doversi esporre in pubblico: esami scolastici, interventi pubblici, essere chiamati ad intervenire verbalmente in un gruppo di persone (associazioni, riunioni di condominio, etc), compiere un azione dinanzi ad una platea, e sarà stata esperienza comune sentirsi sotto osservazione, un po impacciati, con il sopraggiugere di tremore e tensione, la voce un po vacillante, ma poi tutto va bene. Nulla di preoccupante, è solo un pò di ansia da prestazione. E’ assolutamente normale, è comune, è evolutivamente determinata, ha un definito intento preparatorio di attivazione di un organismo nell’ambiente al fine di compiere una performance, di qualsiasi natura, anche sociale.

Per alcune persone, questo timore o ansia può essere accentuata da una componente caratteriale: chi è tendenzialmente timido può preferire ascoltare piuttosto che intervenire in una discussione dove partecipano molte persone, così come una persona timida potrebbe preferire passare inosservata pubblicamente piuttosto che essere il cuore della festa, anche tra amici.

Ma potrebbe essere anche il contrario: ci sono persone che non temono di essere visibili pubblicamente, eppure riscontrano una forte sintomatologia ansiosa dinanzi ad un esame scolastico o in un confronto lavorativo con i colleghi o i superiori.

Fin quando questa ansia, seppur presente, può essere gestita e una persona riesce a portare a termine la propria performance sociale con soddisfazione, tutto bene: un pò di tensione si può sopportare, anche se non è gradevole, l’importante è procedere nella propria esperienza di vita raggiungendo i traguardi sperati.

Ma cosa succede se l’ansia preparatoria non si risolve naturalmente? Se si mantiene nel tempo, anche quando cerchiamo di affrontarla? Se rovina il risultato delle nostre azioni sociali? Se è talmente soverchiante da impedirci di raggiungere il nostro risultato, magari in termini lavorativi, con conseguenze negative?

Generalmente queste esperienze di ansia sociale si presentano con la tipica sintomatologia ansiosa, ovvero una condizione di sofferenza psicologica caratterizzata da rossore, tremore, sudorazione, nodo alla gola, tachicardia, sensazione di capogiri o vertigini, e dal timore marcato e duraturo di una situazione sociale, reale o temuta, in cui si è esposti all’altrui giudizio.

Ciò che contraddistingue la normale ansia da quella sociale sono i temi dei pensieri che passano per la mente: sentire gli sguardi dei presenti diretti tutti sulla propria persona, dubbi sui giudizi negativi su di sé, timore di sbagliare, di essere inadeguato, di fallire, di fare una pessima figura.

Quando si affronta la tematica ansiosa, il focus è incentrato sulla qualità di vita di una persona, perché di ansia, diciamolo, non si muore, anche se talvolta l’esperienza soggettiva si avvicina pericolosamente alla sensazione di morte, o di raggiungimento della follia, o di soffocamento o infarto.

Qualsiasi persona farebbe di tutto per sfuggire un’esperienza così sgradevole, pagando pesanti conseguenze: limitando fortemente la propria vita, in termini di autonomia, limitando, nei casi più estremi rovinando, la propria carriera lavorativa, conducendo una vita sociale povera, precludendosi talvolta una vita sentimentale, per paura di essere visibile e di essere sotto giudizio nella società.

Ovviamente il disturbo di ansia sociale va inteso come condizione clinica all’interno di un continuum tra due posizioni limite: ad un estremo si collocano persone tendenzialmente timide che temono di esporsi o preferirebbero mantenere un basso profilo sociale ma riescono ad affrontare situazioni sociali senza impedimenti psicologici importanti (timidezza patologica); all’altro estremo troviamo soggetti che vivono condizioni di forte sofferenza psicologica negli eventi pubblici o sociali, al punto di evitare tout court le situazioni sociali ansiogene (disturbo evitante di personalità); nel mezzo si riscontrano la maggior parte dei casi di persone che soffrono di ansia sociale, presentando un livello di gravità e una sintomatologia nella media, e correlata a significati personali ascrivibili alla propria storia di vita.

Clinicamente tale condizione può essere diagnosticata da uno psicologo come Disturbo d’ansia sociale, se sono presenti una serie di condizioni in termini di sintomatologia e di durata, e può essere affrontata in terapia con buoni risultati.

La terapia cognitivo-comportamentale di questo disturbo propone modelli e tecniche d’intervento differenziate, che condividono un nucleo d’interpretazione: la convinzione di essere inadeguati socialmente e di essere oggetto del giudizio negativo altrui.

Il lavoro psicoterapico offre buone probabilità di risoluzione del disturbo in questione, forte della collaborazione empirica alla base di questo approccio terapeutico, dove il lavoro di squadra paziente-terapeuta è imprescindibile per il buon esito del trattamento e dove le difficoltà ansiogene possono essere sperimentate, interpretate, elaborate e modificate in una relazione sociale sotto controllo per eccellenza: lo studio dello psicologo.

Disturbo d’ansia per la salute

E’ una delle condizioni cliniche più antiche della storia della civiltà, già al tempo di Ippocrate e negli scritti relativi a quell’epoca se ne ritrova traccia: l’ipocondria, attualmente denominata disturbo d’ansia per la salute.

Il termine antico deriva dalla denominazione greca della zona superiore dell’addome, luogo corporeo di grande importanza per la dottrina ippocratica degli ‘umori’, soprattutto in rapporto con il configurarsi della melancolia a cui l’ipocondria venne collegata.

Nel II secolo d.C. il vocabolo fu utilizzato proprio nell’ambito della dottrina relativa alla melancolia per designare, in particolare in Galeno, una vera e propria malattia, che venne definita hypochondriacum flatulentumque morbum. La concezione galenica si è sostanzialmente mantenuta fino al 19° secolo; ancora nel 1845, infatti, W. Griesinger, neurologo e psichiatra tedesco, riteneva gli stati ipocondriaci come forme minori e più lievi della follia, includendoli in tal modo nel concetto di stati depressivi psichici.

Emil Kraepelin nel 1896 suggerì una interessante distinzione tra hypochondria cum materia, ovvero con disturbi reali ma sopravvalutati, e hypochondria sine materia, ovvero senza alcuna basa oggettiva.

Per questo lungo periodo l’ipocondria è stata interpretata e concettualizzata in differenti modi, ma nell’essenza ha sempre indicato uno stato di profondo timore di aver contratto o di trovarsi in una condizione di grave malattia, di cui si avvertivano i segnali premonitori e di cui il medico sottostimava la portata, con la conseguenza di spingere la persona a cercare continuamente conferme o smentite attraverso consultatazioni mediche sempre più dettagliate.

Attualmente l’ipocondria ha mutato nome (Disturbo d’ansia per la salute) ma non sono cambiate le caratteristiche del disturbo in sé: la differente denominazione si è resa necessaria per allinearsi agli studi più recenti e aggiornati, che hanno individuato un carattere di continuità tra l’ipocondria e il funzionamento dei disturbi ansiosi.

Il soggetto che soffre di questo disturbo si automonitora, cioè si “ascolta” continuamente: ogni sensazione fisica viene indagata scrupolosamente, continuamente, attribuendo un significato catastrofico alle sensazioni percepite, collegandole a malattie gravi. A questo automonitoraggio seguono diversi comportamenti: la ricerca di conferme presso il medico di base, al quale vengono richieste visite continue, pareri, analisi sempre più invasive, esami di laboratorio, con conseguente aumento di richiesta di prescrizioni farmaceutiche, il più delle volte non necessarie, rassicurazioni su ogni sensazione rilevata, e di consultazioni specialistiche. Nonostante il focus medico così dettagliato, non si evince miglioramento o soluzione al dubbio sulla propria salute, tanto che tali soggetti hanno la tendenza a ricercare ossessivamente, in proprio, informazioni sulle malattie temute sui libri di medicina, navigando sui siti tematici, fino ad autodiagnosticarsi malattie e sindromi, generalmente molto gravi e con esiti fatali.

In genere tali soggetti arrivano a richiedere esami sempre più invasivi e costosi, gravando in misura considerevole sui costi del Sistema Sanitario; non solo, le conseguenze gravano anche sul sistema familiare ed amicale, attraverso la continua condivisione dei sintomi emersi e sul loro livello di gravità e attraverso la costante richiesta di rassicurazioni e supporto. Non ultimo, il costo personale in termini di sofferenza psicologica, di tempo investito in una ricerca senza fine, di stress legato alla visione di sé come vulnerabile ed incompreso, sia dalla propria rete sociale, sia dai rappresentanti del settore medico.

Attualmente, il trattamento cognitivo-comportamentale rappresenta il percorso di cura d’elezione del disturbo d’ansia per la salute, grazie alla concettualizzazione teorica e d’intervento proposta da un clinico  inglese, studioso della materia, il dott. P. Salkovskis, che negli anni 90, sulle ricerche effettuate, ha elaborato un modello di comprensione del disturbo basato sul funzionamento dei disturbi ansiosi.

Attraverso la concettualizzazione cognitiva del disturbo d’ansia per la salute, oggi è possibile intervenire ed ottenere buoni risultati di risoluzione della dinamica ansiosa, grazie ad un lavoro psicoterapico incentrato su: conoscenza del disturbo, rilevazione dei circoli viziosi che incrementano la gravità del disturbo in sé, i fattori di mantenimento che il soggetto mette in atto e che sostengono la dinamica nel tempo.


Attacchi di panico e Disturbo da Panico

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“Un mostro opprimente che mi totalizza. Tutto diventa nero, soffocante, irreale….la testa gira, mille pensieri si affacciano, e nessuno che riesco a mettere a fuoco.

Mi sento come se la mente non mi rispondesse, non mi appartenesse, mi sento di impazzire.”

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“Parte la sudorazione, mentre il cuore batte a mille e le mani sono un tremore.

Non respiro, ho un nodo alla gola che me lo impedisce. E sento che sto per morire.

Solo l’intervento dei medici del Pronto Soccorso mi salva.”

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Le esperienze vissute dalle persone che hanno avuto un attacco di panico sono piene d’angoscia, di sofferenza, di soffocante disperazione. Eppure sono così differenti nei sintomi che si presentano, differenti nelle valutazioni cognitive che accompagnano questi episodi di ansia acuta.

Vi sono casi in cui prevalgono sintomi incentrati su palpitazioni, eccessiva sudorazione, tremori, dolori al petto, altri in cui prevalgono affollamenti di pensieri negativi, sensazioni di perdita di controllo e perdita di contatto con la realtà circostante (derealizzazione), altri in cui prevalgono vertigini, tremori, debolezza alle gambe. E altre possono essere le combinazioni di sintomi che si presentano in una persona con un attacco di panico, partendo da 13 sintomi possibili e necessari per poter formulare tale diagnosi. Tali costellazioni sintomatologiche sono accompagnate da 4 timori specifici: avere un infarto, svenire, soffocare, impazzire.

Generalmente, una persona che sperimenta un attacco di panico tende a mettere in atto una serie di comportamenti atti ad impedire che questo possa verificarsi nuovamente, ovvero gli evitamenti: è molto comune in chi ha sperimentato un attacco di panico mentre era in automobile tendere a evitare di mettersi alla guida, rinunciare a prendere il treno piuttosto che l’aereo, non andare al cinema per timore che possa sopraggiungere un attacco mentre si è nella folla della sala e non riuscire a fuggire in tempo, non abbassare la testa per evitare che possano presentarsi le vertigini.

Insieme agli evitamenti, è comune riscontrare una serie di comportamenti di protezione, ovvero comportamenti che idealmente impediscono di raggiungere l’apice di intensità dell’ansia, cercando di gestire al meglio la comparsa delle prime sensazioni fisiche: per chi è svenuto durante l’attacco, cercare una sedia su cui poggiarsi appena le gambe iniziano a tremare per la debolezza, farsi accompagnare negli spostamenti, controllare la respirazione per non iperventilare.

Ne deriva tutta una serie di limitazioni nel contesto di vita e della propria libertà dovute alla necessità di poter mettere in atto queste forme di protezione ed questi evitamenti come strategie di contrasto all’attacco di panico.

D’altronde l’ansia non è una emozione gradevole, e sperimentarla a livelli di intensità elevati non rientra tra le esperienze di vita che si ripetono volentieri.

La messa in atto di questi evitamenti non garantisce la risoluzione degli attacchi di panico, che possono comparire in ulteriori contesti ambientali, con livelli di intensità crescenti, con 2 conseguenze principali: incremento degli evitamenti e dei comportamenti di protezione, in una dinamica di circolo vizioso, e la comparsa del vissuto di impotenza.

Le strategie messe in atto dai soggetti con attacchi di panico poggiano sul buon senso, ma le dinamiche da cui questi si generano e che sono mantenuti nel tempo sono estranee a questa logica, tanto che chi generalmente cerca di gestire in solitaria queste esperienze emotive negative non ottiene buoni risultati, anzi la tendenza è quella di contribuire al mantenimento della sintomatologia ansiosa, creando i presupposti affinché uno o due episodi si trasformino in un Disturbo da Panico.

La ricerca di uno specialista per poter risolvere questo disturbo in genere avviene quando la sintomatologia ansiosa è tale da impedire il naturale scorrere degli eventi quotidiani, quando la sofferenza è giunta a livelli non più sopportabili, quando l’oppressione è tale da non permettere una vita piena e vissuta in tutti i suoi ambiti.

Tali soggetti sono timorosi di affrontare gli eventi, vivono costantemente in stato di vigilanza pronti a cogliere alle prime manifestazioni i sintomi temuti, non comunicano volentieri nella propria rete sociale il dolore che stanno vivendo, si vergognano della piega che la loro vita sta prendendo, isolandosi sempre maggiormente, vivendo in solitaria il terrore che tendono ad allontanare a tutti i costi.

Eppure gli attacchi di panico e il relativo Disturbo sono patologie su cui grandi passi sono stati compiuti nel campo del trattamento psicologico. La loro concettualizzazione teorica nel campo della terapia cognitivo-comportamentale ha raggiunto livelli di eccellenza, sono stati elaborati protocolli d’intervento efficaci nella gestione e risoluzione del disturbo, in un ottica di psicoterapia breve.

La perseveranza nella sofferenza, laddove si sia presentato un Disturbo da Panico, non è giustificata dall’assenza di trattamenti efficaci nella sua risoluzione, ma è mantenuta dalla mancanza di informazioni, di accesso alle cure nel Sistema Sanitario, nella diffidenza verso la figura dello psicoterapeuta, nei costi talvolta onerosi per sostenere un percorso psicoterapico.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale è un trattamento specialistico, utile per affrontare il Disturbo da Panico, basato su una solida concettualizzazione teorica e metodologica, sostenuto dalla ricerca internazionale basata su criteri di bontà riconosciuti nel campo scientifico.

E’ una psicoterapia breve, economica dal punto di vista costi-benefici, si avvale di protocolli di intervento validati dalla ricerca, è efficace nel risolvere molti disturbi psicologici, tra cui il Disturbo da Panico.

Ansia normale e patologica

L’ansia, di per sé, è un’emozione primaria, innata,  indipendente dal contesto d’apprendimento e culturale (famosi gli studi sulle espressioni facciali legate alle emozioni in bambini molto piccoli), presente nel bambino già verso l’ottavo mese di vita, dove si presenta come paura dell’estraneo.

Come tutte le emozioni, ha un forte valore comunicativo e sociale, basata sull’impronta evolutiva di predisposizione di una risposta adeguata e adattiva agli stimoli presenti nell’ambiente. Aumento battito cardiaco, sudorazione, iperventilazione, tremori e tensione muscolari risultano essere aggiustamenti fisiologici avviati da un comando a carattere del sistema nervoso centrale per favorire nell’organismo una risposta di tipo “attacca, scappa o immobilizzati” dinanzi ad un pericolo.

Dunque l’ansia prepara un organismo a reagire ad una minaccia, in maniera immediata, non ragionata, in quanto il ragionamento, seppur in forma ridotta, comporta un impegno di tempo che l’organismo non si può permettere dinanzi ad un pericolo imminente.

Questa argomentazione ci illumina su come tra l’uomo e gli altri mammiferi vi sia una linea di continuità: basti pensare alle reazioni fulminee che siamo abituati ad osservare nei documentari naturalistici, dove la preda “scatta” alla percezione del minimo movimento da parte del predatore, e come questi compia movimenti quasi impercettibili al fine di avvicinarsi quanto più possibile alla preda presa di mira.

Le reazioni fisiologiche che sono presenti nell’ansia trovano spiegazione e comprensione nella dinamica sopra citata: l’organismo che percepisce la minaccia attiva in un tempo limitatissimo tutte le risorse di cui dispone per fronteggiare il pericolo o per scappare, dunque l’ossigeno deve essere presente in gran quantità per irradiare ogni parte del corpo, il cuore deve pompare tutto l’ossigeno necessario, ogni muscolo deve essere pronto e teso, la concentrazione massima per percepire minimi variazioni nell’ambiente circostante.

Eppure l’emozione in generale, e in questo caso l’ansia, si avvale di una componente cognitiva, un giudizio iniziale, ciò che R. Lazarus (1966) chiama “valutazione primaria”, che consiste nel riconoscimento di una situazione come minaccia e nella valutazione della probabilità, l’immediatezza e il grado di possibile conseguente danno. Se tale giudizio è notevolmente negativo, l’organismo non prova a fuggire, in quanto la fuga risulterebbe inutile, ma “si congela” (freezing), basandosi sull’assunto che, sempre prendendo come esempio il mondo animale, il predatore non si cibi di animali morti, per non ingerire cibo avariato, compromettendo la propria esistenza.

Questo tipo di reazione, il freezing, seppur difficilmente trova applicazione nel genere umano odierno, in quanto non è comune il cannibalismo, si può riscontrare in diverse situazioni ansiogene, in quanto le reazioni emotive sono state inglobate nel nostro cervello dei nostri antenati preistorici milioni di anni fa, consolidate nelle strutture limbiche nella parte più profonda e antica del telencefalo e correlate alle funzioni fondamentali per la conservazione della specie.

Dunque l’ansia è un’emozione importante, ma si presenta all’esperienza soggettiva come tendenzialmente spiacevole: se una lieve tensione che accompagna l’azione può essere sopportata e gestita nel breve periodo, un’ansia forte dà luogo a forti sensazioni fisiologiche che, insieme ad una valutazione primaria negativa e ad un tempo maggiore di persistenza, può produrre sensazioni estremamente sgradevoli ed insopportabili.

E’ ciò che si sperimenta nell’ansia forte e nell’ansia patologica (attacchi di panico, disturbo da panico, agorafobia, ipocondria, ansia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo, ansia specifica, ansia generalizzata).

La prima può verificarsi in presenza di forti minacce di pericolo o laddove si valuti un evento particolarmente grave, immediato, comportante gravi conseguenze: maggiore è la minaccia, maggiore sono le risorse messe in campo per fronteggiarla.

La seconda si sperimenta nel momento in cui tutta la costellazione sintomatologica si attiva in assenza di un reale pericolo o in contesti ambientali che di per sé non comportano minacce.

In questo caso le reazioni più frequenti sono: allarme sulle sensazioni percepite, utilizzo di comportamenti di protezione, evitamento.

Lo spaventarsi delle sensazioni corporee percepite come sgradevoli in genere comportano un aumento di ansia, con conseguente peggioramento della situazione.

L’utilizzo di comportamenti di protezione (sedersi, sdraiarsi, allontanarsi, etc.) possono produrre un beneficio nel breve periodo, ma nel lungo periodo non risolvono la situazione ansiogena né producono benefici consistenti.

L’evitamento (non frequentare luoghi dove si presenta la sintomatologia, non guidare, non parlare in pubblico, etc.), oltre a peggiorare e a prolungare il disagio psicologico in atto, conduce alla lunga ad un peggioramento della qualità di vita di una persona, che vede restringere intorno a sé gli ambiti di interesse e di azione, all’insegna dell’impoverimento della vita in generale e limitazioni al proprio valore personale.

 

La Terapia Cognitivo Comportamentale

Negli ultimi tempi è sempre più diffusa la cultura del benessere psicologico, cioè la consapevolezza che non solo il corpo, ma anche la mente necessitano di attenzione, buone pratiche di gestione delle difficoltà e percorsi di sostegno e cura mirati ad affrontare problematiche che hanno un impatto importante sulla salute globale dell’individuo.

Quando ad una persona fa male una gamba va dal medico curante e successivamente dall’ortopedico; se si presentano problemi al petto si va dal cardiologo.Ma se le difficoltà si presentano a livello emotivo, a chi ci si rivolge? Al momento è assente nel SSN la figura dello psicologo di base, che sarebbe un professionista analogo al medico di base, anche se l’Ordine degli Psicologi è da anni che lavora a questo progetto.

L’alternative al momento disponibili sono il passaparola ed il web.La prima soluzione è praticabile da coloro che hanno superato il pregiudizio e la vergogna legata alla fragilità emotiva e che fa coincidere lo psicologo con lo “strizzacervelli che cura i matti” ed incontra i limiti della conoscenza sul territorio di questo specialista nella propria rete sociale.

La seconda soluzione apre un mondo sconosciuto: psicologi senza specializzazione, psicologi con master, psicologi psicoterapeuti, psicoterapeuti psichiatri….Ma a chi rivolgersi? Quale differenza esiste tra le differenti e numerose terapie? Quale farà al mio caso?

La vastità delle terapie presenti nel panorama psicologico e l’assenza di un referente autorevole in materia (come il medico di base) che possa accogliere la richiesta d’aiuto e veicolarla verso lo strumento (il tipo di approccio) maggiormente efficace per un determinato problema, rende alquanto difficoltoso poter accedere ad un percorso di cura ad hoc, o almeno ci introduce in un terreno misterioso dove non si è certi di aver effettuato la giusta scelta se non facendone esperienza diretta.La terapia cognitivo-comportamentale (TCC) è un tipo di approccio basato sulle teorie della mente attualmente più accreditate dalla comunità scientifica internazionale e si avvale di strumenti di modificazione comportamentale che si sono rivelati utili nel produrre cambiamenti significativi in diversi disturbi clinici.

La TCC costituisce il “gold standard”, ossia l’approccio terapeutico di maggior efficacia valutato con studi randomizzati e controllati, per tutti i Disturbi d’ansia (Disturbo di panico, Ansia sociale, Disturbo d’ansia generalizzata, Disturbi somatoformi, Fobie specifiche) e per i Disturbi dell’umore (Depressione, Distimia, Disturbo bipolare).

Le ultime evidenze di efficacia arrivano da ricercatori americani (David, Cristea e Hofmann 2018) i quali sostengono che la CBT (in Italiano TCC) è il trattamento gold standard che attualmente abbiamo a disposizione nel campo della psicoterapia per i seguenti motivi:

1) La CBT è la forma di psicoterapia che ha il maggior numero di studi che ne hanno valutato l’efficacia.

2) Nessuna altra forma di psicoterapia ha dimostrato di essere sistematicamente superiore alla CBT; se ci sono differenze sistematiche tra le psicoterapie, in genere favoriscono la CBT – si vedano per esempio i trial sulla bulimia nervosa, dove la CBT è risultata significativamente più efficace della psicoterapia psicoanalitica (Poulsen, et al., 2014) e della psicoterapia interpersonale (Fairburn, et al., 2015).

3) I modelli teorici e i meccanismi di cambiamento delle CBT sono stati i più studiati e sono in linea con gli attuali paradigmi tradizionali della mente e del comportamento umano (per es. il processamento delle informazioni).Pertanto, gli autori concludono che la CBT domina le linee guida internazionali per i trattamenti psicosociali, grazie al suo chiaro supporto derivato dalla ricerca, ed è il trattamento di prima linea per molti disturbi, come raccomandato dalle linee guida del National Institute for Health and Care Excellence e dell’American Psychological Association. Ciò nonostante gli autori sottolineano come, sebbene la CBT sia efficace, il lavoro di ricerca deve proseguire, perché alcuni pazienti non rispondono al trattamento oppure ricadono dopo un periodo di remissione sintomatologica.