Bambini e genitori a tavola

Succede sovente che, nelle famiglie con bambini, in occasione dei pasti possano insorgere momenti di tensione, o addirittura conflitto aperto, per una condotta alimentare non ritenuta appropriata.

Si spazia dal mangiare in piedi o in posizioni acrobatiche, dall’andare e venire dal tavolo per ogni boccone, dal mangiare solo con i cartoni, passando per scelte esclusive di determinati alimenti, a pasti ridotti o totale digiuni.

Possono verificarsi capricci, ricatti e imposizioni, fino a lacrime e disperazione, da parte dei bambini e da parte dei genitori.

Dal punto di vista genitoriale, è possibile imbattersi in 2 stili di comportamento preferenziali: il primo consiste nell’obbligo di seguire determinate regole, alimentari e di condotta, che mirano a fornire una struttura educativa alimentare; il secondo si connota come un “lasciar fare”, “passerà”, che si caratterizza dunque come una sorta di accondiscendenza ai voleri del bambino, o libertà di esprimersi.

Questi due stili sono ovviamente gli estremi di un continuum lungo il quale si dipanano tutta una serie di tentativi “quotidiani” di trovare una soluzione di gestione della tavola e del quieto desinare.

Interrogativo dei genitori è come gestire questi fenomeni, da dove hanno avuto origine, quali le loro mancanze educative, se è possibile intervenire o se è ormai una situazione consolidata, se si è in presenza di una condizione clinica, e altro.

Ne consegue uno stato emotivo che permane nel tempo, da un pasto all’altro e a quello successivo, che  può essere caratterizzato da rabbia, ansia, frustrazione, sensi di colpa, sentimenti di incapacità, di inefficacia, di timore per lo stato di salute del bambino, ma anche di tensioni tra coniugi, con relativa colpevolizzazione di uno nei confronti dell’altro, in termini di coercizione contro lassismo, di accuse reciproche, di assenza contro totale delega.

Fornire la spiegazione del fenomeno sarebbe semplicistico, in quanto esso è multideterminato, e per questo, soggetto alla combinazione di molte variabili che si relazionano tra loro, ad esempio:

  • i partecipanti alla tavola
  • lo stile familiare di conduzione del pasto
  • il carattere dei partecipanti
  • le regole della famiglia
  • le aspettative dei genitori, basate sulle regole acquisite nelle famiglie d’origine
  • la presenza del televisore, telefoni, tablet
  • preparazione dei pasti/stile dietetico
  • stile relazionale genitori/figli.

Tutti gli elementi si possono combinare tra loro e dare vita  a scenari diversi. E differenti possono essere i modi in cui si affrontano le situazioni che si vengono a creare. Alcune situazioni evolvono in maniera naturale e si risolvono, altre perdurano. Se intervenire o meno resta nelle capacità della coppia genitoriale di osservare, confrontarsi ed intervenire in maniera congiunta, consultandosi con il pediatra o lo psicologo esperto in disturbi alimentari.

Ma restano alcune considerazioni da fare .

Il bambino è una persona in divenire, impara dall’ambiente e, in relazione all’età, si pone in maniera attiva, esercitando la volontà di essere attore delle esperienze che lo circondano e lo riguardano, attraverso la scelta.

Dunque il bambino assorbe ciò che lo circonda, non solo in termini linguistici (ciò che gli si dice), ma anche e soprattutto in termini comportamentali (ciò che si fa). Osserva e ripropone le dinamiche che coglie con l’imperativo tipico dei bambini: senza filtri, senza accomodamenti, in maniera assoluta. Pertanto i comportamenti a tavola, ai quali noi adulti non prestiamo attenzione o che consideriamo appropriati in base allo status di adulto, come mangiare in silenzio assorbiti da tv e telefonini, il bambino li fa suoi, mangiando solo guardando i cartoni o con il telefono in mano.

Il bambino può portare a tavola ciò che coglie fuori dai pasti: tensioni, disinteresse percepito, incongruenze, ma anche solitudine, difficoltà indipendenti dall’assetto familiare, rabbia e tristezza. In diverse fasce di età tendenzialmente si acquisiscono delle abilità e competenze psicologiche, senza le quali o in mancanza di un adeguato supporto genitoriale che possa consolidarle, il bambino non è in grado di riconoscere, dare un nome e condividere un mondo interiore basato su emozioni negative: il linguaggio è quello corporeo, attraverso comunicazioni fisiologiche (inappetenza, mal di stomaco, capricci, iperattività, assorbimento in attività non pertinenti).

Il bambino può voler farsi Vedere: attraverso la presa di decisione, la scelta, l’autonomia decisionale. La tavola diventa il banco di prova dove esercitare tale autonomia, i genitori il pubblico che assiste alla sua performance di essere diventato grande.

Inoltre vi sono una serie di atteggiamenti frequentemente riscontrati nei bambini, come una selezione del cibo in base all’aspetto e al colore, alla disposizione nel piatto, alle consistenze degli alimenti, alle preferenze alimentari e oppositività rispetto un determinato cibo; tendenzialmente sono atteggiamenti transitori, che si risolvono nel tempo, da non patologizzare.

Dinanzi a questo ampio panorama di comportamenti e atteggiamenti legati ai momenti del pasto, alcune indicazioni di carattere generale per supportare i genitori in difficoltà:

  1. richiedere un consulto dal pediatra solo se le scelte alimentari del bambino sono severamente limitate in termini nutrizionali, cioè se il bambino assume solo pochissime categorie differenti di cibo (solo pasta in bianco, rifiuto categorico di frutta e verdura, etc) e/o se si verifica un calo ponderale importante e in breve tempo;
  2. non forzare il bambino ad assumere determinati cibi, in quanto ciò potrebbe portare a creare resistenze;
  3. non ricattare il bambino (se mangi, ti compro un gioco), ciò significa delegare il potere e i bambini lo avvertono e lo usano;
  4. non creare un clima a tavola di tensione e conflitti, questo potrebbe essere la base per futuri disturbi conclamati;
  5. è preferibile dare il buon esempio a livello comportamentale: stare seduti a tavola compostamente, mangiare tutti i cibi presenti al pasto, essere presenti, tranquilli, disponibili;
  6. fornire regole ed applicarle nel tempo, senza imporle: i bambini necessitano di una struttura e assorbono e consolidano le abitudini familiari gradualmente;
  7. offrire un’ampia varietà di cibi, colorati, divertenti e appetibili: esistono una grande varietà di ricette basate sui medesimi ingredienti;
  8. osservare, ascoltare e accogliere le preferenze dei bambini, con flessibilità e coinvolgimento: chi di noi mangia tutto di tutto? anche per i piccoli è così, l’importante è che il rispetto delle preferenze non si trasformi in limitazioni strutturali;
  9. far socializzare i bambini con il cibo, toccarlo, lavarlo, maneggiarlo, riconoscerlo, e perchè no?, in base all’età, scegliere la ricetta da mettere a tavola e partecipare alla preparazione;
  10. porre attenzione se ulteriori difficoltà o disagi emergono in altre aree funzionali, come il sonno, l’attenzione, etc.

Per i genitori che vivono situazioni di stress dinanzi a scenari simili, non è facile tenere sotto controllo la propria emotività. Tale disagio, per quanto si tenti di nasconderlo, celarlo agli occhi dei propri figli, comunque verrà avvertito: il linguaggio preferenziale dei bambini è quello corporeo e anche se la mamma o il papà affermano una cosa, loro necessariamente percepiranno tutt’altro, innescando confusione e ambiguità nella comunicazione, con conseguenze sull’emotività dei bambini, in termini negativi.

 

Anoressia Nervosa: un quadro d’insieme

Tra i Disturbi del Comportamento Alimentare, l’anoressia è di certo uno dei più conosciuti, sia per le conseguenze fisiche che si evincono dalla mera osservazione di un soggetto con tale patologia, sia per la diffusione di informazioni a carico dei mass media e delle associazioni che lavorano sulla prevenzione a fronte dell’alto tasso di mortalità che tale patologia comporta.

L’Anoressia Nervosa è un disturbo caratterizzato dalla presenza di evidenti alterazioni del comportamento alimentare, che ha il proprio esordio tipicamente nell’adolescenza (anche se l’età media di insorgenza tende a scendere progressivamente) con l’adozione di regole dietetiche rigide ed estreme.

Sovente la dinamica si attiva della semplice adozione di una dieta per raggiungere uno standard di peso desiderato, ma il raggiungimento dell’obiettivo assume i connotati di insoddisfazione, di ulteriore perseveranza di un obiettivo che appare sempre più sfuggente ed inarrivabile, con relativo calo del peso oltre i normali valori di Indice di Massa Corporea (BMI), che raggiunge valori legati al sottopeso, anche grave. Oltre alla dieta ferrea, alcuni individui adottano l’esercizio fisico eccessivo e compulsivo, altri metodi di condotta di eliminazione (vomito, lassativi, diuretici).

Ciò che appare centrale in questo disturbo è l’alterazione della percezione di peso e immagine corporea: questi due elementi vengono percepiti dal soggetto in modo alterato, non conforme ad un dato oggettivo, ed il vissuto che accompagna tali percezioni è di ansia, vergogna, negazione, disgusto.

Per fronteggiare le emozioni negative la strategia adottata dal soggetto anoressico è rappresentata dal controllo del cibo ingerito, dalla negazione del senso di fame, dalla messa di atto di comportamenti compensatori, che danno luogo, in definitiva, a sensazioni di benessere, che sostengono la sintomatologia anoressica attraverso l’attivazione di circoli viziosi.

La percezione di autocontrollo diviene apparente e superficiale: se dall’esterno è facile osservare soggetti determinati a perseguire uno stile di vita controllato, aderente a regole fisse e rigide, a carattere alimentare, di attività fisica, lavorativa, di studio, nel profondo i soggetti anoressici sono caratterizzati da livelli di stress importanti (al fine di mantenere una organizzazione di comportamenti altamente elaborata), da spirali di emozioni negative (che si attivano nel momento in cui ci si discosta anche lievemente del must autoimposto), dal progressivo isolamento sociale, dal calo dei livelli di prestazioni a cui sono abituati.

L’autostima è incentrata unicamente sull’immagine corporea, a dispetto delle diverse sfaccettature di una personalità multideterminata.

La componente cognitiva del disturbo è rappresentata dalla negazione, soprattutto a se stessi, della gravità fisiologica, mentale, emotiva, sociale del disturbo, dovuta all’alterazione di peso e immagine corporea sopracitata: emerge chiaramente come le persone che soffrono di tale disturbo non hanno alcuna motivazione a chiedere aiuto e a sostenere un trattamento. Il soggetto anoressico percepisce un senso di benessere tanto più significativo quanto più sente di avvicinarsi all’obiettivo prefissato (basso peso ponderale), sottovalutando lo stato di deprivazione alimentare a cui sottopone il suo corpo e le complicanze fisiche che ne scaturiscono (basse difese immunitarie, riduzione proteine plasmatiche, caduta di capelli, alterazioni del quadro endocrino, danni all’apparato digerente, cardiocircolatorio, respiratorio, renale, muscolo-scheletrico e nervoso).

Se si giunge ad una consultazione specialistica, generalmente queste persone sono portate dai familiari, testimoni impotenti del declino ponderale e delle regole dietetiche estreme adottate, e la loro presenza è funzionale a placare i timori dei familiari, piuttosto che da una reale consapevolezza del proprio stato di salute.

L’aderenza al trattamento medico e psicologico presenta diverse criticità, legate all’assenza di consapevolezza della malattia: i soggetti anoressici si sentono bene nel loro corpo scarno, pertanto non comprendono la necessità di modificare lo stato delle cose.

Il primo passo è dunque il lavoro sulla motivazione, che risulta indispensabile e preparatorio all’intervento nutrizionale e psicologico, al fine di “ingaggiare” il soggetto anoressico in un sistema di significati condiviso, dove il terapeuta non rappresenta una minaccia, ma anzi diviene alleato nella comprensione delle dinamiche in atto, nella ricerca di nuovi obiettivi e strategie adattivi e funzionali.

Sovrappeso e obesità in età evolutiva

Sempre più frequentemente sui mass-media e nelle riviste specializzate si parla del problema del sovrappeso nella popolazione giovanile, e i dati che vengono divulgati presentano una situazione allarmante.

L’Italia è ai primi posti in Europa per il numero di bambini in sovrappeso e i dati sono destinati a peggiorare in quanto in Europa il sovrappeso in età scolare cresce al ritmo di circa 400.000 casi l’anno.

 Dal 30 al 60% dei bambini obesi mantengono l’eccesso ponderale in età adulta e presentano, più frequentemente del previsto, alterazioni metaboliche e complicanze rispetto all’obesità che si manifesta in età adulta.

I dati italiani sembrano confermare questo trend: l’ISTAT parla di ragazzi compresi tra i 6 e i 17 che presentano un eccesso ponderale nel 24% dei casi, percentuale che conferma i dati emersi da un’indagine epidemiologica dell’Istituto Superiore di Sanità (2008) effettuata su un campione rappresentativo di bambini frequentanti la terza classe della Scuola primaria (8 anni), con percentuali stimate intorno al 23,2% di bambini sovrappeso e il 12% di bambini obesi.

Il sovrappeso rappresenta una condizione problematica ampia, dove si sommano alterazioni a carattere medico, stigma sociale, problematiche psicologiche.

Un bambino che presenta un eccesso ponderale significativo può andare incontro a una serie di problemi a carattere medico nel futuro: i disturbi più frequentemente legati al sovrappeso comprendono i disturbi cardiocircolatori e osteo-articolari, insorgenza di diabete, ipertensione.

Lo stigma sociale rappresenta un ulteriore scoglio nella vita di un bambino sovrappeso/obeso: solitamente i bambini hanno un linguaggio molto schietto e laddove intravedono vulnerabilità rispetto ad una caratteristica di un compagno, non esitano a sottolinearla mettendola in evidenza con termini offensivi o comunque “coloriti”. Se questi commenti o definizioni possono essere legati ad uno scherzo più o meno bonario, nel bambino “etichettato” questi commenti possono prendere forma di timori e insicurezze, possono evidenziarsi vulnerabilità legate a temi quali accettazione, piacevolezza personale e sociale, integrazione nel gruppo, immagine corporea e autostima, possono originarsi disturbi clinici conclamati.

Ne derivano problematiche psicologiche di varia natura ed entità (ansia, depressione, ritiro sociale, disturbi alimentari), in base alla struttura di personalità che nel bambino va delineandosi e prendendo forma. E’ importante ricordare che un bambino, seppur in tenera età, è pur sempre una persona, dotata di temperamento, carattere, desideri, aspettative, fragilità, all’interno della quale le basi sono state poste attraverso le prime relazioni, in primis qualla materna, e altre andranno a costituirsi e consolidarsi nelle relazioni con i pari.

Al fine di contenere la diffusione di questa condizione nella popolazione infantile, la Società Italiana di Pediatria ha stilato il seguente decalogo di buone prassi:

  1. Controllare il peso e la statura con regolarità (almeno ogni sei mesi)

  2. Fare cinque pasti al giorno evitando i “fuoripasto”

  3. Consumare almeno cinque porzioni di frutta o verdura al giorno

  4. Bere molta acqua limitando le bevande zuccherate

  5. Ridurre i grassi a tavola, in particolare salumi, fritti, condimenti, dolci

  6. Evitare di utilizzare il cibo come “premio”

  7. Privilegiare il gioco all’aperto, possibilmente almeno un’ora al giorno

  8. Camminare a piedi in tutte le occasioni possibili

  9. Praticare uno sport con regolarità.

  10. Limitare la “videodipendenza” durante il tempo libero: massimo 2 ore al giorno.

A carattere psicologico si delineano percorsi di sostegno al minore attraveso interventi comportamentali a carattere familiare, che comprendono cambiamenti virtuosi:

  1. dello stile alimentare,

  2. dello stile di vita (sedentario vs attivo),

  3. della comunicazione tra i componenti del nucleo familiare

e interventi singoli e di gruppo

  1. di sostegno emotivo e motivazionale.