Il disturbo depressivo è la malattia mentale più diffusa e sembra in continua crescita (World Health Organization, 1998; 1999).
Ogni anno si ammalano di depressione quasi 100 milioni di individui in tutto il mondo e di questi il 75% non viene trattato o riceve cure inappropriate.
I tassi di prevalenza nell’arco della vita del disturbo depressivo maggiore, per un periodo superiore ai 12 mesi, oscillano tra il 2,6% e il 12,7% negli uomini e tra il 7% e il 21% nelle donne, e si stima che circa un terzo della popolazione soffrirà di un episodio di depressione lieve durante la propria vita.
I possibili esiti della depressione possono essere molto gravi, comportando un notevole deterioramento del funzionamento psicosociale, fino ad arrivare al suicidio.
Tra i pazienti depressi la probabilità di suicidio è del 15% circa. I fattori di rischio suicidario possono essere diversi. Quelli principali evidenziati dagli studi attualmente presenti in letteratura sono:
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l’appartenenza al sesso maschile;
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la presenza di ideazione suicidarla;
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il ritiro sociale;
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i sentimenti di disperazione, oltre che la durata dell’episodio depressivo ( più tempo dura, più cresce il rischio che la persona commetta suicidio).
Anche quando non si arriva al suicidio, la presenza di un disturbo depressivo può portare comunque a gravi compromissioni nella vita di chi ne soffre: non si riesce più a lavorare o a studiare, a coltivare interessi e mantenere relazioni sociali e affettive, a provare piacere e interesse in alcuna attività.
I pazienti che soffrono di disturbi depressivi presentano uno stato di salute peggiore, un maggior rischio di invalidità e di assenza dal lavoro, una compromissione delle prestazioni lavorative, maggiori difficoltà relazionali in famiglia, maggiore incapacità nell’adempiere il proprio ruolo genitoriale ed un aumento significativo nell’utilizzo dei servizi sanitari.
Misurando le cause di morte, l’incapacità a lavorare, la disabilità e le risorse mediche necessarie, si può ipotizzare che tra circa 15 anni la depressione clinica avrà un peso sulla salute internazionale secondo solo alla malattia cardiaca cronica (Hartley, 1998; WHO, 1998).
Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV; APA 1994, DSM V, 2014), chi soffre di disturbo depressivo maggiore presenta, per almeno due settimane:
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un umore depresso (tristezza, disforia, irritabilità, disperazione, etc.) per tutta la giornata quasi ogni giorno
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assenza di interesse e piacere nelle attività che prima lo interessavano e lo facevano stare bene.
Ad almeno uno di questi due sintomi se ne aggiungono minimo altri quattro, tra cui
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faticabilità;
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cambiamento significativo di peso;
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disturbi del sonno;
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agitazione o rallentamento motorio;
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sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi;
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difficoltà di concentrazione, di pensiero e di prendere decisioni;
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pensieri ricorrenti di morte, ideazione suicidaria o tentativi di suicidio.
Per poter porre diagnosi di disturbo depressivo maggiore, la persona non deve aver mai sofferto nella sua vita di altri tipi di alterazione patologica dell’umore quali episodi maniacali, ipomaniacali o misti (depressione e ipo/maniacalità contemporaneamente).
I sintomi depressivi possono comparire quasi improvvisamente in modo acuto in persone che generalmente hanno una personalità “ottimista e allegra” o possono essere presenti da diverso tempo in forma lieve e sottosoglia (distimia) con alcuni momenti o periodi di peggioramento.
Se si considerano quindi, la vasta diffusione dei disturbi depressivi, la loro natura invalidante e l’alto tasso di prevalenza di forme subcliniche, i cui sintomi non arrivano a soddisfare i criteri diagnostici, ma sono significativamente correlati alla probabilità di sviluppare in seguito un episodio depressivo più grave, ci si rende conto di quanto sia importante riconoscere il prima possibile i sintomi depressivi e curarli efficacemente.
Questo impegno diviene ancora più urgente, arrivando a costituire una reale emergenza nel campo della salute mentale, dal momento che i casi di depressione sono sempre più in aumento tra le persone giovani, adolescenti e giovani adulti, e quindi in persone che sono nell’età in cui si costruiscono i mattoni della vita futura, come studiare e trovare un lavoro, fare amicizie, trovare un amore e metter su famiglia.
L’approccio cognitivo ha da sempre posto molta attenzione alla comprensione e alla cura della depressione. Attualmente è uno dei trattamenti più efficaci, tanto che le linee guida internazionali dell’APA (1993, 2000) indicano la Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC) come scelta privilegiata nella cura della depressione, associata ai farmaci antidepressivi quando la depressione è grave.
La prima formulazione del modello cognitivo della depressione risale agli inizi degli anni sessanta, quando vennero pubblicati due articoli e un libro di Aaron T. Beck, in cui l’Autore descrive le principali ipotesi esplicative e il protocollo di terapia (1963, 1964, 1967). Da allora sono state avanzate e studiate diverse ipotesi cognitiviste sul disturbo depressivo, la maggior parte delle quali in linea con quelle di Beck. Ancora oggi il modello esplicativo di Beck è la formulazione più nota in clinica e nella ricerca e il suo protocollo terapeutico rimane il più efficace per i disturbi depressivi e costituisce la base dell’intera terapia cognitiva.